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Il digitale fuori dalla guerra commerciale: l’accordo USA-UE colpisce l’industria tradizionale

Contenuto sviluppato con intelligenza artificiale, ideato e revisionato da redattori umani.
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L’accordo commerciale annunciato a Turnberry il 27 luglio 2025 tra Stati Uniti e Unione europea ha introdotto un dazio del 15 per cento sulla quasi totalità delle merci europee dirette verso gli Stati Uniti. La misura, formalmente presentata come compromesso rispetto all’originaria proposta americana di applicare una tariffa del 30 per cento, costituisce uno degli elementi centrali del nuovo equilibrio economico tra le due sponde dell’Atlantico. A questa decisione si accompagna un impegno dell’Unione Europea a investire circa 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti, cifra che coprirà settori strategici tra cui l’energia, la difesa e le infrastrutture tecnologiche. In parallelo, sono previsti acquisti strutturati di gas liquido, armamenti e tecnologia militare statunitense. Non sono invece previste misure simmetriche sui beni in arrivo dagli USA verso l’UE: le importazioni statunitensi continueranno a godere dell’attuale regime fiscale, senza dazi aggiuntivi applicati da Bruxelles.

Nel comparto digitale, che comprende software scaricabile, piattaforme online, servizi cloud, infrastrutture di intelligenza artificiale e contenuti in abbonamento, non è stato applicato alcun dazio, né da parte statunitense né da parte europea. Questo perché le trasmissioni elettroniche non sono considerate merci ai fini doganali secondo l’interpretazione prevalente nei negoziati multilaterali, e rientrano nella moratoria dell’Organizzazione mondiale del commercio, in vigore fin dal 1998 e recentemente prorogata fino al 31 marzo 2026. Tale moratoria impedisce a tutti i Paesi membri dell’OMC di applicare tariffe o imposte doganali a beni e servizi digitali scambiati tra nazioni. Di conseguenza, i servizi e i prodotti digitali statunitensi venduti online in Europa non subiscono dazi, così come quelli eventualmente offerti da imprese europee sul mercato statunitense, sebbene il flusso principale sia fortemente sbilanciato in favore delle grandi aziende tecnologiche americane.

Questa esclusione ha permesso al settore digitale di restare sostanzialmente immune dagli effetti più pesanti dell’accordo, beneficiando di una continuità normativa e operativa che favorisce la stabilità degli scambi. In un contesto in cui molti comparti industriali e manifatturieri dovranno affrontare nuovi vincoli, aumenti dei costi e complessità burocratiche legate alle barriere tariffarie, chi lavora prevalentemente con prodotti e servizi digitali si trova in una posizione molto più favorevole. Il digitale, oggi centrale nell’economia europea e globale, è quindi uno dei pochi ambiti a non subire contraccolpi immediati o sistemici dall’intesa raggiunta.

L’impatto dell’accordo si riflette anche sul piano fiscale europeo. Uno degli effetti collaterali più rilevanti della trattativa è stato il ritiro, da parte della Commissione, della cosiddetta web tax dal progetto di bilancio pluriennale dell’UE. Questo prelievo era concepito come imposta unificata sui ricavi delle grandi piattaforme digitali, in particolare quelle con sede negli Stati Uniti, e la sua rimozione è stata interpretata da diversi osservatori come una concessione negoziale. Tuttavia, l’assenza di una web tax comunitaria non elimina l’attuale frammentazione normativa. Diversi Stati membri, tra cui Francia, Italia, Spagna e Austria, mantengono in vigore imposte nazionali sui servizi digitali con aliquote che variano generalmente tra il 3 e il 5 per cento e che si applicano a pubblicità online, intermediazione digitale e sfruttamento dei dati degli utenti.

Queste imposte, pur formalmente rivolte ai fornitori, vengono di fatto spesso trasferite sul consumatore. Ricerche di settore mostrano che il tasso di traslazione delle digital services tax sui prezzi finali è elevato, in alcuni casi persino superiore al 100 per cento. In termini concreti, ciò significa che in quei mercati dove l’imposta è attiva, i consumatori potrebbero pagare tra 30 e 40 centesimi in più su un servizio digitale dal costo mensile di 10 euro. L’effetto varia a seconda del tipo di servizio, del potere di mercato del fornitore e della capacità del consumatore di spostarsi su alternative meno costose. È quindi una pressione fiscale indiretta ma concreta, che penalizza in modo non uniforme l’accesso a contenuti e strumenti digitali.

Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, l’accordo influisce indirettamente su alcune componenti della sua filiera tecnica. I dazi del 15 per cento introdotti dagli Stati Uniti colpiscono anche i beni strumentali come semiconduttori, componenti server e attrezzature elettroniche che partono dall’Unione Europea. Questo impatto riguarda una parte delle aziende europee attive nella produzione hardware avanzata, con conseguenze possibili sui margini di profitto e sulla competitività. Tuttavia, l’impatto sui consumatori europei resta per ora contenuto, dal momento che le tariffe agiscono sull’export verso gli Stati Uniti e non sulle importazioni nell’UE. In prospettiva, potrebbero emergere criticità se alcuni Stati membri decidessero di adottare contromisure simmetriche, colpendo ad esempio i componenti tecnologici statunitensi importati in Europa. Considerando che molti data center e infrastrutture cloud si basano su processori e tecnologie prodotte negli USA, eventuali dazi introdotti in risposta potrebbero riflettersi rapidamente su abbonamenti, servizi in abbonamento e piattaforme digitali attive in Europa.

Sul fronte fiscale interno, va segnalata anche l’adozione, da parte del Consiglio dell’Unione Europea, del pacchetto normativo “VAT in the Digital Age”, approvato a marzo 2025. La riforma impone nuovi obblighi di raccolta e dichiarazione dell’IVA alle piattaforme digitali, obbligandole ad agire come sostituti d’imposta nei casi in cui gli utenti finali non versano direttamente l’imposta. Questo comporta un aggravio burocratico e amministrativo per le aziende, in particolare per le realtà medio-piccole, senza però modificare le aliquote. L’effetto stimato sul prezzo finale è modesto, e gli studi preliminari indicano un impatto inflattivo contenuto entro pochi decimi di punto percentuale.

Nel complesso, il nuovo assetto negoziato tra Stati Uniti e Unione Europea crea una frattura tra i settori tradizionali dell’economia e quelli digitali. I primi affrontano dazi significativi e un contesto più rigido, mentre i secondi – soprattutto quelli interamente basati su flussi digitali – beneficiano di una relativa immunità. Il digitale, in particolare quello statunitense, continuerà a operare nel mercato europeo con condizioni sostanzialmente invariate. Al tempo stesso, l’assenza di una regolazione unitaria in Europa lascia spazio a forme di pressione fiscale frammentata che, seppur meno visibili, potrebbero rallentare l’adozione di servizi digitali avanzati. I consumatori, almeno nel breve termine, non vedranno rincari significativi nel digitale, se non nei Paesi che mantengono attiva una tassa nazionale sui servizi online. In quei casi, l’impatto finale continuerà a essere percepibile, anche se raramente superiore al 3-4 per cento sul prezzo lordo di un servizio digitale diffuso.