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Contenuto sviluppato con intelligenza artificiale, ideato e revisionato da redattori umani.
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Durante un’intervista rilasciata a Jessica Lessin in occasione del live streaming “Inside Zuckerberg’s AI Playbook”, trasmesso da The Information il 15 luglio 2025, Mark Zuckerberg ha esposto con chiarezza la sua strategia per lo sviluppo della super-intelligenza artificiale. Dalle sue parole emerge una visione nettamente distinta rispetto a quella perseguita da altri colossi del settore come OpenAI e Google. Al centro del discorso di Zuckerberg non c’è l’idea di un’entità astratta in grado di risolvere le grandi questioni dell’umanità, ma qualcosa di molto più personale e concreto: una “super‑intelligenza personale”. Si tratta di un agente digitale integrato nella vita quotidiana, pensato per assistere ognuno di noi nel mantenere relazioni, supportare la creatività, gestire appuntamenti e ricordare follow-up lasciati in sospeso. Un assistente ubiquitario, cucito addosso alla nostra esperienza, incarnato in occhiali smart capaci di vedere, ascoltare e agire in tempo reale.

Mentre OpenAI persegue un modello generalista orientato a obiettivi universali e Google punta su Gemini come sistema enciclopedico e multitasking, Meta orienta i suoi sforzi verso l’intimità dell’interazione quotidiana. Il confronto è netto: dove gli altri puntano all’intelligenza centrale che affronta il sapere assoluto, Meta preferisce moltiplicare micro-intelligenze diffuse e vicine all’utente.

Per accelerare questa traiettoria, Zuckerberg adotta una strategia duale: da un lato pochi ricercatori altamente selezionati, capaci di “tenere tutto il sistema in testa”; dall’altro, una potenza di calcolo spropositata. Il rapporto tra menti e GPU diventa il vero asset competitivo. Chi entra nel team ottiene libertà operativa, risorse quasi illimitate e la possibilità di contribuire a un progetto non zavorrato da strutture ereditate. Questo approccio si discosta da quello più accademico e stratificato di Google DeepMind o dalla community decentralizzata che ruota attorno a OpenAI.

L’infrastruttura è un altro elemento che distingue Meta. Mentre altri costruiscono data center nel rispetto delle logiche edilizie convenzionali, Meta punta su tensostrutture che permettono di aggirare i vincoli urbanistici e velocizzare i tempi. I due cluster Titan — Prometheus e Hyperion — supereranno un gigawatt ciascuno. Zuckerberg paragona l’estensione di questi impianti alla superficie di Manhattan, e rivendica il diritto di continuare a investire senza limiti, finché la tecnologia mostra segnali di scalabilità.

Nel frattempo, le versioni derivate da Llama 4 stanno già migliorando autonomamente gli algoritmi che regolano Facebook. È il segnale che il ciclo di feedback fra ricerca e prodotto è già innescato, e che l’auto-miglioramento è parte integrante della traiettoria. Per Zuckerberg, la soglia della super‑intelligenza non è lontana: potrebbe emergere entro due o tre anni. Meta si comporta come se questo traguardo fosse a portata di mano, puntando a stabilire lo standard prima degli altri.

Anche il discorso sul talento assume connotati differenti. Il fondatore di Meta ridimensiona l’attenzione verso i pacchetti retributivi, considerandoli irrilevanti rispetto all’investimento infrastrutturale. L’attrattiva, secondo lui, sta nella possibilità di lavorare in un laboratorio nuovo, non gravato da sistemi obsoleti. È un messaggio opposto rispetto alla narrativa di OpenAI, che spesso enfatizza le competenze trasversali e i team interdisciplinari.

Meta non insegue la super‑intelligenza per renderla un’entità suprema, ma per farne un alleato personale, pervasivo, divertente e utile. Non una mente sovrumana che domina le altre, ma un compagno invisibile che rende ogni utente più efficace, più creativo, più presente. È qui che si consuma la vera differenza: dove altri costruiscono oracoli, Meta vuole costruire assistenti. Ed è una scommessa culturale, prima ancora che tecnologica.