Una mano che sfiora la superficie liscia di un tablet; un dito che segue le righe di un antico manoscritto; occhi puntati su un grande schermo luminoso. Cambiano le epoche e le tecnologie, ma un elemento resta sorprendentemente costante: l’apprendimento, la lettura e l’immaginazione dell’umanità passano quasi sempre attraverso una superficie bidimensionale. Sin dalle pitture rupestri nelle caverne – figure di animali e scene di caccia tracciate su pareti piatte di roccia – abbiamo scelto piani bidimensionali per raccontare storie e trasmettere informazioni. Molto più tardi, su tavole d’argilla, papiri arrotolati, pergamene, fogli a stampa e infine schermi digitali, il sapere è stato registrato e diffuso su supporti essenzialmente piatti. Questo articolo esplora come quella superficie – dalla pagina cartacea allo schermo del computer – abbia strutturato il modo in cui organizziamo e assimiliamo le informazioni. Esamineremo esempi concreti dalla storia dell’editoria e della comunicazione per vedere come il piano bidimensionale abbia plasmato la cognizione, la memoria e la percezione, e come continui a farlo persino nell’era di realtà virtuale e intelligenza artificiale. Il paradosso è che, pur vivendo in un mondo fisico tridimensionale e sognando futuri immersivi, la nostra intelligenza si è evoluta elaborando informazione su piani piatti – e continua a farlo, anche con tecnologie avanzate che, almeno per ora, rimangono ancorate alla bidimensionalità.
Dalla pergamena allo schermo: la superficie piatta che organizza il sapere
Un erudito dell’antica Alessandria, intento a consultare un voluminoso rotolo di papiro, doveva svolgere metri di pergamena e farla scorrere avanti e indietro per trovare un passaggio: un processo macchinoso. Il formato a rotolo, in uso presso Egizi, Greci e Romani, obbligava a una lettura sequenziale e rendeva difficile tornare su punti già letti. Inoltre, nei manoscritti antichi mancavano del tutto spazi tra paragrafi, segni di interpunzione, lettere maiuscole o numeri di pagina che aiutassero a orientarsi. Un lettore doveva affidarsi solo alla propria memoria per ritrovare un brano: “riavvolgere” fisicamente il rotolo fino al punto giusto era quasi impossibile in assenza di riferimenti visivi o numerici. Anche la capacità di archiviazione era limitata: un singolo rotolo non poteva contenere testi lunghissimi, e conservare una grande opera significava accumulare decine di rotoli in scaffali e nicchie dedicati.
A un certo punto della storia, questa forma continua di testo avvolto lasciò il posto a qualcosa di nuovo: il codice rilegato, ovvero il formato librario a pagine cucite che ha sostituito il rotolo e rappresenta l’antenato del libro moderno. Con l’adozione del codice – pagine di pergamena cucite insieme su un lato e protette da una copertina – avvenne una piccola grande rivoluzione. Ora si poteva sfogliare il testo avanti e indietro con facilità, cercare un passo semplicemente aprendo il volume a una data pagina, e sfruttare entrambi i lati di ogni foglio per scrivere. Un codice permetteva di raccogliere più informazioni in meno spazio: interi testi che avrebbero richiesto vari rotoli potevano stare in un solo volume, riducendo l’ingombro nelle biblioteche antiche. Questa tecnologia rese il supporto scritto più maneggevole e portatile – non a caso sembra che il codice si sia diffuso anche perché ispirato a pratici taccuini di appunti usati già dai Romani, una sorta di quaderni ante litteram.
Non tutti i problemi furono risolti di colpo. I primi codici spesso conservavano l’aspetto “compatto” dei rotoli: il testo era ancora scritto tutto attaccato, senza spaziatura né punteggiatura per diversi secoli. Ma col tempo la pagina introdusse accorgimenti preziosi. Comparvero capitoli, paragrafi, titoli, capilettera decorati – tutti elementi resi possibili dalla natura segmentata della pagina. Soprattutto, in età rinascimentale si affermò l’uso dei numeri di pagina, un’invenzione che oggi diamo per scontata ma che ha richiesto tempo per entrare nelle abitudini editoriali. Pensate: intorno al 1469 i libri ancora non avevano la numerazione delle pagine; la prima testimonianza nota di pagine numerate risale al 1470, in un sermone stampato a Colonia. Ci volle circa un altro mezzo secolo perché la pratica si standardizzasse. Numerare le pagine significava poter citare e rinviare a un punto preciso di un testo senza ambiguità: nasceva un sistema di riferimenti incrociati, indici e sommari che avrebbe cambiato per sempre il modo di organizzare e consultare l’informazione scritta. Il numero di pagina è in fondo un “metadato” ante litteram che scompone l’opera in parti più piccole e referenziabili – un’innovazione che ha anticipato di molti secoli i moderni hyperlink digitali.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg a metà Quattrocento, la pagina bidimensionale conobbe una diffusione di massa. Il libro divenne oggetto riproducibile in migliaia di copie identiche, consolidando convenzioni di impaginazione e formati che si sarebbero tramandati nei secoli. Le pagine stampate potevano essere arricchite da incisioni e illustrazioni: pensiamo ai frontespizi ornati, alle miniature colorate ai margini dei testi sacri medievali, fino alle fotografie nei giornali ottocenteschi. In ogni caso, la fruizione rimaneva bidimensionale: che fosse la Bibbia di Gutenberg o il quotidiano, le informazioni venivano assorbite attraverso lo sguardo su una superficie piatta di carta. La superficie stessa influiva su come quelle informazioni erano presentate: i quotidiani adottarono colonne strette per facilitare la lettura e sfruttare meglio il foglio grande formato; i libri optarono per dimensioni maneggevoli e caratteri leggibili; le riviste combinarono testo e immagini in layout creativi. Insomma, il mezzo fisico “pagina” ha condizionato il messaggio, per parafrasare McLuhan, ossia ha modellato la struttura dei contenuti. Un testo pensato per un rotolo continuo differisce da uno pensato per una pagina numerata e impaginata: nel secondo caso si possono inserire note a piè di pagina, rimandi “vedi pagina seguente”, impaginare grafici accanto al commento e così via – tutti stratagemmi cognitivi resi possibili dalla spazialità stabile della pagina.
Con il XX secolo, l’orizzonte dei media si allarga ancora: schermi elettronici e dispositivi digitali entrano in scena. Prima il cinema e la televisione – dove immagini in movimento raccontano storie sempre su uno schermo piatto – poi i computer, che inizialmente usavano monitor per mostrare testo verde fosforescente su sfondo nero, e infine l’odierna miriade di dispositivi: monitor ad alta definizione, tablet, smartphone, e-reader. A ben guardare, siamo circondati da schermi bidimensionali: dal palmo della mano (il display del telefono) alle pareti di casa (la TV). Ogni volta stiamo leggendo o guardando contenuti su un rettangolo piatto. È vero, il computer ha introdotto nuove metafore – finestre, menu a tendina, pagine web “scrollabili” – ma sono tutte esperienze ancorate a due dimensioni. Anzi, con l’era di Internet abbiamo assistito a una curiosa inversione: il ritorno dello scroll continuo. Leggiamo articoli facendo scorrere la pagina verso il basso, in un flusso verticale potenzialmente infinito, un po’ come tornare al rotolo antico ma in versione digitale. Molti siti web, incluso quello in cui vi trovate ora, presentano testi lunghi su un’unica “pagina” che si estende ben oltre i limiti dello schermo, richiamando l’esperienza del papiro, sebbene arricchita da barre di scorrimento e indicatori di progresso. Altri invece simulano la suddivisione in pagine tradizionali (ad esempio gli eBook che sfogliano da pagina a pagina anche se lo schermo è uno soltanto), a testimonianza di quanto la familiarità del formato cartaceo sia radicata in noi.
Ecco dunque delineato un filo conduttore storico: dall’incisione sulla roccia alla realtà digitale, la superficie bidimensionale funge da interfaccia tra la mente e l’informazione. Ma come ha influenzato ciò il nostro modo di pensare e ricordare? Cosa comporta per la nostra cognizione il fatto di assumere conoscenza da piani piatti invece che dall’esperienza diretta tridimensionale? Per rispondere, dobbiamo guardare a come il cervello umano elabora la lettura e la visione, e a come la forma del medium interagisce con tali processi.
Cognizione su due dimensioni: leggere, ricordare e capire attraverso superfici piatte
Leggere un libro o un articolo non è un atto “naturale” per il cervello umano nel senso biologico stretto: è un’abilità culturale che abbiamo sviluppato relativamente di recente, appoggiandoci a circuiti cerebrali originariamente evoluti per altri scopi (come il riconoscimento di oggetti e forme nell’ambiente tridimensionale). Eppure, con millenni di pratica, la nostra specie è diventata straordinariamente abile nel decodificare segni bidimensionali su una superficie e nel ricavarne significato, emozione, conoscenza. Questo adattamento ha comportato anche alcuni compromessi e peculiarità cognitive.
Un aspetto interessante è come la bidimensionalità del supporto condizioni la nostra percezione rispetto all’esperienza diretta tridimensionale. Guardare la foto di un oggetto non è come tenere in mano l’oggetto vero – sembrerebbe ovvio, ma a livello di memoria l’effetto è notevole. Esperimenti di psicologia hanno mostrato che ricordiamo meglio un oggetto reale rispetto alla sua fotografia: in prove di memoria, i partecipanti ricordavano con più accuratezza oggetti fisici che avevano maneggiato rispetto a immagini a due dimensioni degli stessi. Uno studio ha trovato, ad esempio, che la percentuale di riconoscimento corretto di oggetti era significativamente più alta quando gli oggetti erano stati visti dal vivo anziché in foto. Ciò indica che l’esperienza tangibile 3D attiva più a fondo i nostri sensi e circuiti mnemonici. Eppure, nella maggior parte dei casi, quando vogliamo apprendere qualcosa di nuovo – che sia la struttura di una cellula o gli eventi della Seconda Guerra Mondiale – non possiamo fare esperienza diretta di ogni cosa; ricorriamo quindi alla mediazione di testi e immagini, accettando un compromesso inevitabile. La superficie bidimensionale, insomma, sacrifica parte della ricchezza sensoriale e della “presa” mnemonica dell’esperienza reale (nessun libro di botanica vi farà ricordare l’odore di una rosa come invece succederebbe annusandone una dal vivo), ma in cambio amplifica enormemente la portata e la conservabilità dell’informazione. Possiamo studiare com’era fatta una nave romana tramite schemi e fotografie senza dover avere fisicamente una trireme davanti a noi; possiamo leggere le teorie di Einstein senza assistere di persona a un esperimento relativistico. Il supporto bidimensionale “appiattisce” l’esperienza rendendola simbolica, ma così facendo la rende trasferibile, modulare e analizzabile. Possiamo sottolineare concetti, aggiungere note ai margini, rileggere passaggi difficili più volte: tutte azioni che nella realtà tridimensionale degli eventi in tempo reale non sono possibili.
In effetti, utilizzare supporti esterni e piatti per pensare e ricordare è diventata una vera estensione della mente umana – ciò che alcuni teorici cognitivisti chiamano “mente estesa”. Disegnare uno schema su una lavagna, scrivere un calcolo su carta o su uno schermo digitale ci permette di scaricare parte dell’elaborazione all’esterno, sul piano visibile, e così alleggerire la mente e al contempo vedere meglio le relazioni tra gli elementi. I grafici, le mappe concettuali, le tabelle non sono che conoscenza proiettata su due dimensioni in forme visuali che il nostro cervello elabora con facilità. Provate a risolvere a mente un complicato problema matematico e poi fatelo invece scrivendolo passo passo su un foglio o su un dispositivo: in entrambi i casi la difficoltà si riduce, perché il supporto “ricorda” per noi i passaggi intermedi, consentendoci di concentrarci solo sul passo successivo. In altre parole, la rappresentazione esterna su una superficie piana amplifica il nostro potere cognitivo. Come osserva il ricercatore David Kirsh, i supporti grafici esterni forniscono strutture persistenti che possiamo manipolare e condividere, riducono il carico della memoria interna e permettono di costruire concetti anche molto complessi distribuendoli nello spazio davanti a noi. Un esempio quotidiano è la lista di cose da fare: scrivendola su carta o su un’app per note scarichiamo la necessità di ricordare tutti i punti, e possiamo concentrarci meglio su ciascuno sapendo che l’elenco completo è lì davanti a noi. Questo fenomeno è talmente parte di noi che spesso non ce ne accorgiamo nemmeno – ma è reso possibile dal fatto che abbiamo superfici stabili su cui fissare simboli.
La bidimensionalità del supporto, dunque, ha plasmato la storia della comunicazione e, con essa, alcune attitudini mentali profonde. Leggere e scrivere, attività cardine dell’intelletto umano, avvengono su superfici piatte e ci hanno abituato a pensare in forma lineare e sequenziale, a ragionare per iscritto scomponendo idee complesse in segni su una pagina. La linearità del testo scritto (una parola dopo l’altra, una riga dopo l’altra, da sinistra a destra e dall’alto in basso, almeno nelle lingue occidentali) ha fornito un modello per strutturare il pensiero stesso in maniera ordinata e analitica. Quando costruiamo un argomento complesso spesso “mettiamo nero su bianco” uno schema, quasi che la superficie ci aiuti a dare una forma logica alle idee. È affascinante notare come perfino concetti che riguardano il tempo o lo spazio vengano spesso rappresentati su superfici piane: pensiamo alle mappe geografiche (che comprimono la realtà tridimensionale della Terra in una carta 2D, rendendo però possibile tracciare rotte e misurare distanze con facilità) o alle linee del tempo usate nella storia (che visualizzano gli eventi in sequenza su un asse orizzontale). La bidimensionalità si presta a creare modelli semplificati della realtà, che il nostro cervello può maneggiare e memorizzare con relativa facilità.
L’intelligenza in un mondo 3D, l’informazione su piani 2D: un paradosso apparente
Viviamo immersi in un mondo tridimensionale: percepiamo la profondità, maneggiamo oggetti, ci muoviamo nello spazio. Viene allora spontaneo chiedersi: perché mai l’informazione e la conoscenza le gestiamo quasi esclusivamente su superfici piatte? Non è un limite? Nel corso del Novecento, e ancor più negli ultimi decenni, questa domanda ha alimentato il sogno di media e interfacce più immersive. La fantascienza ha spesso immaginato futuri in cui lo studio e l’intrattenimento avvengono in ambienti virtuali a 360 gradi: si pensi al “cyberspazio” di molti romanzi o al metaverso dove le persone navigano letteralmente dentro Internet come fosse un luogo. Tecnologie come la realtà virtuale (VR) e la realtà aumentata (AR) sono il tentativo concreto di portare l’informazione fuori dal piano dello schermo e disseminarla nello spazio attorno a noi. Con i visori VR possiamo essere circondati da un ambiente simulato; con occhiali AR possiamo vedere ologrammi e testi sospesi nell’aria, integrati al mondo reale. Vien da sé pensare che, una volta mature queste tecnologie, la bidimensionalità potrebbe diventare obsoleta: perché leggere un libro su un tablet quando potrei sedermi a fianco di un ologramma dell’autore che mi narra la storia, circondato dall’ambientazione virtuale del romanzo?
Eppure, nonostante queste possibilità, la realtà odierna mostra un quadro diverso. La bidimensionalità resta centrale e, per certi versi, insostituibile. I visori VR e gli occhiali AR non hanno affatto soppiantato libri, monitor e smartphone – anzi, il loro utilizzo rimane di nicchia in confronto. Un sondaggio condotto nel 2023 tra adolescenti negli Stati Uniti ha rivelato dati eloquenti: pur essendo una generazione tecnofila, solo il 29% dei teenager intervistati possedeva un visore di realtà virtuale, e di questi appena il 4% lo utilizzava quotidianamente. In confronto, il 95% degli adolescenti dichiarava di usare uno smartphone ogni giorno (il 87% possedeva un iPhone, per citare il modello più diffuso). Il telefonino – un dispositivo che in fondo è tutto schermo piatto – regna sovrano nella vita quotidiana, mentre la realtà virtuale resta perlopiù un’esperienza occasionale. Anche tra gli adulti e nel mondo professionale, l’adozione di VR/AR è lenta: fuori da ambiti specifici come il gaming, la formazione militare o pochi settori di nicchia, la maggior parte di noi continua a lavorare, leggere e divertirsi guardando dritto in uno schermo rettangolare.
Le ragioni sono in parte pratiche e in parte cognitive. Sul piano pratico, le attuali tecnologie immersive presentano ancora barriere all’ingresso: un visore VR può essere ingombrante, va indossato calandosi in una sorta di casco che isola dall’ambiente, affatica la vista e talvolta causa disorientamento o “mal di simulazione”. Leggere un testo lungo con un visore sul capo può risultare scomodo dopo un po’, sia per il peso del dispositivo, sia per la risoluzione che – pur migliorata nelle ultime generazioni – raramente eguaglia la nitidezza di uno schermo tradizionale o della carta stampata. È stato osservato che, a parità di contenuto, chi legge testi dentro un ambiente VR tende a ricordare e comprendere meno rispetto a chi legge su carta o su un normale schermo bidimensionale. In un esperimento, ad esempio, partecipanti dotati di visore VR hanno risposto correttamente in media all’82% delle domande di comprensione su un brano letto, contro il quasi 100% di chi leggeva lo stesso testo su un classico monitor LCD (un gruppo che leggeva in AR, con occhiali a realtà aumentata, arrivava all’88%). Questa differenza – lieve ma indicativa – suggerisce che la lettura immersiva in VR oggi comporta un piccolo deficit di accuratezza, probabilmente dovuto sia a questioni di comfort visivo (risoluzione, messa a fuoco) sia al diverso stato attentivo in un ambiente virtuale. Va detto che migliorando la tecnologia (visori più leggeri, display ad altissima definizione) queste disparità potrebbero ridursi. Infatti lo stesso studio notava che usando un visore VR di qualità superiore le prestazioni di lettura miglioravano un poco, pur restando inferiori al cartaceo. Ma al di là dei dati, c’è un fattore di fondo: la semplicità d’uso. Leggere su carta o su un comune schermo non richiede preparativi: si prende il libro in mano o si sblocca il telefono, e si legge. Entrare in VR richiede di predisporre un ambiente (sedersi magari, indossare il dispositivo, impugnare controller), isolarsi almeno in parte dal mondo reale, e questo – oltre a essere talvolta percepito come un ostacolo – cambia la nostra attitudine mentale. Paradossalmente, per leggere con profitto abbiamo bisogno anche di un certo comfort e di sentirci a nostro agio: la familiarità di una pagina da sfogliare o di uno schermo da scorrere può favorire la concentrazione, mentre un ambiente troppo nuovo e immersivo può diventare distraente di per sé.
C’è poi un punto sottile: finché vogliamo leggere testo scritto, anche in VR o AR finiamo spesso col riprodurre… delle pagine. Molte applicazioni di realtà virtuale che presentano informazioni lo fanno mostrando pannelli flottanti davanti all’utente, come se fossero schermi virtuali sospesi nello spazio 3D. In un ambiente VR si può per esempio aprire un browser web: il risultato sarà una finestra rettangolare con all’interno un normale sito in formato bidimensionale. Anche nelle riunioni virtuali in VR spesso ci si ritrova seduti attorno a un tavolo con al centro un grande “schermo” dove scorrono diapositive piatte. Insomma, portiamo con noi la metafora del foglio e dello schermo anche nei mondi simulati, perché è un formato collaudato ed efficace per veicolare testo e immagini. La realtà aumentata, dal canto suo, sovrappone livelli informativi al mondo fisico: ma come appaiono questi livelli? Spesso sotto forma di etichette, riquadri, testi flottanti accanto agli oggetti. Se indosso occhiali AR turistici in una città d’arte, vedrò ad esempio il nome di un monumento e qualche riga di descrizione apparire in uno spazio accanto ad esso – ancora una volta parole su un piano (virtuale) inserito nel mio campo visivo. Certo, la realtà aumentata potrebbe un domani proiettare informazioni in modo più organico (ad esempio “scrivendo” i nomi delle cose direttamente su di esse in prospettiva), ma resta il fatto che il nostro apparato visivo e cognitivo preferisce leggere testi piani: le scritte distorte o avvolte attorno a oggetti sono più difficili da leggere. Dunque anche l’AR, per essere comoda, finisce per introdurre piccoli schermi virtuali trasparenti nel nostro sguardo.
Fin qui sembrerebbe che la bidimensionalità continui a dominare per una sorta di inerzia dovuta ai limiti attuali delle tecnologie immersive. Ma potrebbe esserci qualcosa di più fondamentale: la bidimensionalità è un canale estremamente efficiente per molte forme di informazione. Un grafico su due assi, ad esempio, sintetizza in un colpo d’occhio una relazione tra dati molto meglio di come potremmo percepirla in una rappresentazione tridimensionale complessa. Un testo scritto su una pagina può essere letto al ritmo desiderato, annotato, citato esattamente: un’esperienza immersiva 3D, per quanto affascinante, spesso non offre la stessa granularità di controllo. C’è poi il fattore della permanenza e maneggiabilità: una pagina stampata o un PDF salvato restano lì identici finché non li spostiamo noi, mentre un ambiente immersivo è per sua natura effimero e richiede un set-up per essere rivissuto. In un certo senso la bidimensionalità offre stabilità: quel che è su pagina non cambia da solo, non “si rompe” se guardi altrove, non dipende da batterie o sensori (nel caso della carta). Questa affidabilità del piano scritto è un valore che abbiamo interiorizzato in millenni.
Tutto ciò non significa che in futuro non vedremo una maggiore integrazione di strumenti 3D nell’apprendimento e nell’intrattenimento. Già oggi si usano simulazioni virtuali per addestrare piloti o per esplorare modelli molecolari in modo interattivo. Ma è probabile che anche in un mondo super-tecnologico il vecchio caro piano bidimensionale mantenga un ruolo di primo piano – magari ibridato con l’immersione. Possiamo immaginare aule del futuro in cui studenti con occhiali AR vedono comparire appunti e schemi virtuali sui loro banchi reali: in pratica, fogli e schermi “fantasma” a supporto della spiegazione del professore. Oppure biblioteche virtuali in cui camminiamo tra scaffali simulati, ma poi leggiamo i libri sfogliando pagine virtuali che si presentano comunque come superfici piane di testo. Il fascino dell’immersione tridimensionale probabilmente troverà il suo posto accanto – non in totale sostituzione – delle forme bidimensionali. Del resto la nostra stessa immaginazione funziona un po’ in questo modo: possiamo sognare in grande e a colori ambienti e storie, ma per fissarli e condividerli spesso li traduciamo in parole scritte su un foglio.
La superficie bidimensionale si rivela il filo rosso che collega il passato al presente e, con ogni probabilità, al futuro prossimo della conoscenza umana. Dalle pareti dipinte di Lascaux allo schermo del telefono che tenete in mano, passando per le pagine miniate dei codici medievali e per i pixel dei computer, abbiamo affidato a piani piatti i nostri insegnamenti, le nostre storie, le nostre idee. Questo formato ha profondamente influenzato il modo in cui strutturiamo l’informazione – rendendola sequenziale, referenziabile, archiviabile – e il modo in cui la nostra mente la elabora – favorendo certi tipi di memoria e astrazione a scapito dell’immediatezza sensoriale. Viviamo in 3D ma pensiamo (anche) in 2D, al punto che persino quando costruiamo mondi virtuali tridimensionali vi reintroduciamo finestre e testi piatti. Forse perché, dopo millenni, la superficie bidimensionale è diventata un’estensione del nostro cervello, un piano familiare su cui far scorrere il pensiero. Anche guardando avanti, tra realtà virtuali sempre più realistiche e intelligenze artificiali sempre più capaci, è difficile immaginare che rinunceremo del tutto alla comodità del leggere una pagina, del tracciare uno schema sul foglio, del comunicare con un grafico o una fotografia. Probabilmente sfumerà sempre più il confine tra superficie fisica e digitale – fogli di carta elettronica flessibili, lenti a contatto che proiettano schermi virtuali – ma non quello tra informazioni e superfici piane. In un’epoca di cambiamenti frenetici, la cara, vecchia bidimensionalità resta il silenzioso palcoscenico su cui continua ad andare in scena lo straordinario spettacolo dell’apprendimento umano.