
Quest’opera contiene in larga parte contenuti generati dall’intelligenza artificiale. L’intervento umano è stato centrale nell’organizzazione degli argomenti, nella revisione e nella cura del prodotto finale. Edizione 1.0 © 2025
La guerra dei 12 giorni
A fine giugno 2025, il Medio Oriente è stato scosso da una guerra lampo di dodici giorni tra Israele e Iran, un conflitto che ha visto un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti al fianco di Israele. La miccia è stata innescata dall’attacco preventivo al programma nucleare iraniano: il 22 giugno gli Stati Uniti hanno impiegato almeno 125 aerei, inclusi bombardieri B-2, per colpire installazioni chiave dell’infrastruttura nucleare iraniana. Si è trattato di un’escalation senza precedenti, resa possibile dalla convergenza strategica tra il presidente USA Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Per anni Washington (sotto l’amministrazione Biden) aveva posto il veto a iniziative unilaterali di Israele contro Teheran, ma nel 2025 la situazione è mutata: Trump ha tolto i freni a Netanyahu e ha partecipato attivamente all’attacco, colpendo obiettivi che solo la potenza di fuoco americana poteva distruggere. Questo intervento diretto ha segnato una svolta storica a favore di Israele, regalando a Netanyahu un trionfo strategico inseguito da vent’anni ma anche aprendo scenari pieni di incognite.
Le operazioni militari si sono svolte con intensità fulminea su più fronti. Da parte israeliana, l’aeronautica (IDF) ha lanciato ondate di raid su obiettivi in territorio iraniano: ad esempio sono stati colpiti sei aeroporti nelle zone ovest, est e centro dell’Iran, con piste e hangar danneggiati. Raid mirati hanno distrutto anche diverse basi di lancio di missili balistici iraniani (come nell’area di Kermanshah), per prevenire attacchi su città israeliane. L’Iran ha reagito lanciando missili a lunga gittata sia verso Israele, sia contro installazioni militari statunitensi nella regione. Nelle prime fasi del conflitto, missili balistici iraniani hanno bersagliato il sud di Israele: a Beer Sheva uno di essi ha colpito un edificio residenziale, causando almeno 7 morti e vari feriti. Contemporaneamente, Teheran ha preso di mira le basi americane in Medio Oriente: sei missili sono stati lanciati contro la base USA di Ain al-Asad in Iraq, mentre la più grande base americana nella regione, Al Udeid in Qatar, è stata oggetto di un attacco missilistico iraniano di rappresaglia. Fortunatamente quest’ultima era stata evacuata in anticipo e le difese aeree qatarine e statunitensi hanno intercettato i vettori in arrivo, evitando perdite umane. Ciononostante, il messaggio di Teheran è stato chiaro: “Trump, giocatore d’azzardo, puoi anche iniziare questa guerra, ma saremo noi a porvi fine” ha dichiarato il portavoce delle forze armate iraniane in un video, promettendo “conseguenze serie e imprevedibili” per gli Stati Uniti.
Nei dodici giorni di ostilità, il bilancio umano e materiale è stato pesante soprattutto per l’Iran. Secondo la tv di Stato iraniana, circa 500 persone sono rimaste uccise e oltre 3.000 ferite in Iran dall’inizio del conflitto il 13 giugno. Si tratta in prevalenza di militari (tra cui almeno 10 Pasdaran eliminati in raid aerei nella provincia di Yazd) e personale delle installazioni colpite, ma non sono mancate vittime civili a causa dei bombardamenti su Teheran e altre città. Israele, grazie al sistema di difesa e ai rifugi, ha contenuto le perdite civili, pur subendo alcuni attacchi (come quello mortale a Beer Sheva). L’escalation ha fatto tremare l’intera regione: le sirene d’allarme hanno suonato in tutto Israele ad ogni nuova raffica di missili iraniani, mentre gli oltre 40.000 militari statunitensi schierati in Medio Oriente si sono trovati improvvisamente nel mirino di Teheran. L’Iran ha minacciato di allargare il conflitto chiudendo lo Stretto di Hormuz – da cui transita un terzo del petrolio mondiale – posando mine e trascinando così la U.S. Navy in una pericolosa operazione di sminamento. La prospettiva di un conflitto regionale allargato, con impatto devastante sull’economia globale, ha tenuto il mondo col fiato sospeso.
Nonostante la retorica incendiaria, la guerra è rimasta circoscritta e si è conclusa rapidamente grazie a un intenso sforzo diplomatico. Un cessate-il-fuoco è entrato in vigore all’alba del 24 giugno, mediato dietro le quinte dal Qatar con l’appoggio diretto degli Stati Uniti. Secondo ricostruzioni trapelate alla stampa, dopo che l’Iran ha colpito (avvisando in anticipo) la base USA in Qatar come atto “dimostrativo”, Doha ha passato un messaggio di Teheran alla Casa Bianca in cui gli iraniani dichiaravano conclusa la loro rappresaglia e si impegnavano a non attaccare ulteriormente. Trump avrebbe risposto garantendo che gli Stati Uniti non avrebbero a loro volta reagito militarmente all’attacco iraniano e si sono detti pronti a riaprire negoziati sul nucleare. In parallelo, Israele (pur restio inizialmente a fermarsi) è stato convinto dall’alleato americano a concordare una tregua temporanea di 12 ore come preludio alla fine delle ostilità. Alle 7:30 ora di Teheran del 24 giugno la tregua è scattata ufficialmente, ponendo fine a quella che Trump ha definito “la guerra dei 12 giorni”. Il presidente USA ha annunciato con enfasi su Truth Social che “il cessate il fuoco è ora in vigore. Vi prego di non violarlo”, celebrando la conclusione rapida di un conflitto che “sarebbe potuto durare anni e distruggere l’intero Medio Oriente”. In un raro slancio ecumenico, Trump ha elogiato entrambe le parti e invocato “Dio benedica Israele, l’Iran, il Medio Oriente e il mondo”, attribuendo il merito della pace alla propria strategia di “pace attraverso la forza” che a suo dire avrebbe scoraggiato un’escalation maggiore.
Reazioni internazionali alla crisi
La guerra lampo Israele-Iran ha suscitato reazioni immediate e divergenti da parte degli attori globali, evidenziando la delicatezza degli equilibri geopolitici coinvolti. La Cina ha esortato con forza sia Israele sia l’Iran alla de-escalation, lanciando un appello affinché il conflitto non si allarghi e non produca effetti negativi sull’economia mondiale. Pechino, per quanto in rapporti non idilliaci con Washington, ha interesse a evitare un conflitto su larga scala in Medio Oriente che farebbe impennare i prezzi energetici e destabilizzerebbe i commerci. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha invitato tutte le parti “a evitare risolutamente un’impennata della guerra e a tornare sulla strada di una soluzione politica”, segno che la Cina si propone come attore diplomatico costruttivo per allentare le tensioni. La Russia, dal canto suo, ha avviato contatti con gli Stati Uniti sul dossier Iran: il consigliere del Cremlino Yuri Ushakov ha confermato che Mosca è in comunicazione con Washington per discutere della situazione iraniana. Pur condannando (in sedi ONU) la violazione della sovranità iraniana, la Russia sembra aver lavorato dietro le quinte per evitare un collasso totale della sicurezza regionale, preoccupata anche per la sorte dell’alleato iraniano e per i propri interessi in Siria e Caucaso. Il mondo arabo ha reagito in modo eterogeneo: i Paesi del Golfo, formalmente alleati degli USA ma timorosi di un incendio regionale, hanno espresso preoccupazione e talora rabbia per le azioni iraniane sul loro territorio. Il Qatar ha denunciato l’attacco missilistico iraniano contro la base USA di Al Udeid come una “flagrante violazione” della propria sovranità, condannandolo fermamente e riservandosi il diritto di rispondere. Questa presa di posizione (sorprendente verso Teheran, con cui Doha intrattiene rapporti abbastanza buoni) riflette l’indignazione per essere stato trascinato nel conflitto. Al contempo, il Qatar si è speso come mediatore imparziale, sfruttando i propri canali sia con Washington che con Teheran per cucire la tregua. Altri Stati arabi, come la Giordania e l’Egitto, hanno chiesto l’immediata cessazione delle ostilità per evitare sofferenze ai civili palestinesi e libanesi (benché questi ultimi non siano stati coinvolti direttamente, il timore era che Hezbollah potesse aprire un fronte dal Libano). L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – che fino a pochi mesi prima trattavano una normalizzazione con Israele – si sono trovati in posizione scomoda: ufficialmente hanno invitato alla calma e al dialogo, ma ufficiosamente hanno accolto con favore i colpi inferti all’Iran, rivale regionale. Anche l’Unione Europea ha reagito con prudenza ma fermezza, condannando il lancio di missili iraniani contro Israele e basi USA, ma allo stesso tempo mettendo in guardia Israele da azioni eccessive. Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha rivelato di aver avuto conversazioni urgenti sia con il collega israeliano Gideon Sa’ar che con l’iraniano Abbas Araghchi, nel tentativo di favorire una de-escalation e proteggere gli interessi dei civili. In sintesi, la comunità internazionale – compresa la Cina e l’Europa – ha manifestato sollievo per la fine rapida delle ostilità, ma anche preoccupazione per la crisi di fiducia nel diritto internazionale generata dall’attacco preventivo e per i possibili strascichi futuri.
Conseguenze militari e geopolitiche
Sul piano strettamente militare, la “guerra dei 12 giorni” ha raggiunto in parte gli obiettivi dichiarati da Israele e Stati Uniti, ma ha anche aperto interrogativi sul futuro equilibrio regionale. Il programma nucleare iraniano esce gravemente menomato dai bombardamenti mirati: come ha affermato trionfalmente il vicepresidente USA J.D. Vance, “una settimana fa l’Iran era vicino ad ottenere un’arma nucleare. Ora non è più in grado di farlo con l’attrezzatura che ha, perché l’abbiamo distrutta”. Tre dei principali siti nucleari iraniani sono stati colpiti e resi inagibili; ciò dovrebbe ritardare di anni – se non di un decennio – l’eventuale capacità iraniana di costruire l’arma atomica. Questo risultato costituisce per Netanyahu un successo strategico inseguito da tempo: Israele, dopo aver eliminato nel 2024 le minacce immediate di Hamas e Hezbollah e approfittato della caduta di Assad in Siria, ha mostrato di poter colpire anche il cuore dell’Iran. In pochi mesi, l’esercito israeliano ha proiettato un’immagine di invincibilità e precisione, facendosi riconoscere come “potenza militare dominante del Medio Oriente” grazie anche al sostegno incondizionato dell’amministrazione Trump. Questo nuovo equilibrio rafforza Israele ma potrebbe rivelarsi instabile: la superiorità militare è un mezzo, non una soluzione politica definitiva. L’Iran, pur sconfitto sul campo aperto, conserva capacità di azione asimmetrica: potrebbe intensificare attività di proxy war tramite milizie sciite nella regione (Iraq, Siria, Yemen) o sfruttare il terrorismo internazionale. Non a caso, i servizi USA hanno allertato sul rischio di attacchi di “cellule dormienti” iraniane sul suolo americano in vendetta, dopo che Teheran ha fatto pervenire a Trump minacce in tal senso durante il G7 in Canada. Questa inquietante prospettiva indica che la partita non è chiusa: l’Iran, “ferito ma non in ginocchio”, potrebbe scegliere il momento e il luogo di ritorsioni meno convenzionali.
Geopoliticamente, l’esito del conflitto ha creato nuove faglie e riallineamenti. Gli Stati Uniti hanno dimostrato, con Trump, una volontà di colpire direttamente l’Iran che supera i tradizionali limiti di ingaggio, ma così facendo hanno alimentato percezioni contrastanti: da un lato l’azione lampo e la mediazione finale possono aver rinsaldato la deterrenza americana (mostrando che Washington è pronta a usare la forza e anche a fermarsi una volta ottenuto lo scopo); dall’altro hanno fatto sorgere dubbi fra gli alleati storici sulla prevedibilità di Trump. In Israele, Netanyahu esce politicamente rafforzato – la guerra che “sognava” da anni è stata combattuta e vinta ai suoi termini – ma resta da vedere se saprà tradurre la vittoria militare in una stabilità duratura. Il rischio è che l’assenza di un accordo politico di lungo periodo lasci solo macerie diplomatiche: l’Iran, umiliato, difficilmente accetterà passivamente la nuova situazione e potrebbe raddoppiare gli sforzi (magari clandestini) per riottenere capacità nucleari, magari con maggiore aiuto di Russia e Cina. Proprio Russia e Cina potrebbero avvicinarsi ulteriormente all’Iran, riempiendo il vuoto lasciato dall’Occidente: già nelle ore calde della guerra Pechino e Mosca, pur non potendo militarmente intervenire, si sono presentate come interlocutori disponibili a sostenere Teheran diplomaticamente. Ciò potrebbe accelerare un blocco alternativo in Medio Oriente, con Iran, Siria e altri attori gravitanti nell’orbita eurasiatica in contrappeso all’asse USA-Israele-Golfo. Sul fronte energetico, la breve durata del conflitto ha evitato uno shock petrolifero di grandi dimensioni: i mercati petroliferi, dopo un iniziale balzo, hanno adottato un atteggiamento attendista e sono rimasti relativamente moderati dato che finora il conflitto non ha colpito seriamente le infrastrutture petrolifere iraniane e la minaccia di Hormuz non si è concretizzata. Tuttavia, la consapevolezza che Trump sia disposto a rischiare un confronto militare in Medio Oriente per “risolvere” questioni come l’Iran getta un’ombra d’incertezza su investimenti e piani economici globali.
Anche negli Stati Uniti la guerra lampo ha prodotto effetti contrastanti. L’opinione pubblica americana, provata da due decenni di conflitti in Asia, non ha mostrato un entusiasmo compatto per questa nuova avventura militare. Si sono registrate proteste pacifiste in diverse città – a Los Angeles, ad esempio, manifestanti sono scesi in piazza il 22 giugno contro l’attacco statunitense all’Iran – e i democratici hanno criticato Trump per aver intrapreso azioni belliche senza un chiaro mandato del Congresso, temendo un allargamento della guerra. D’altra parte, la base elettorale trumpiana ha applaudito il “polso fermo” del Presidente contro un nemico storico degli USA: slogan come “America is back” o “lo abbiamo fatto noi ciò che altri non osavano” sono risuonati nei media conservatori. Trump ha cercato di capitalizzare politicamente l’operazione, presentandola come una dimostrazione della “forza restaurata” dell’America e della sua leadership mondiale ritrovata, in contrasto – a suo dire – con la debolezza dell’era Biden. Nel breve termine, la rapida conclusione vittoriosa ha evitato perdite americane ed è stata salutata da molti come un successo. Tuttavia, restano interrogativi: la “pace” imposta con le bombe sarà stabile? E soprattutto, c’è stata una strategia ponderata dietro questa escalation o l’episodio conferma l’imprevedibilità impulsiva di Trump sulla scena internazionale? Su questo punto cruciale torneremo in seguito, analizzando se le mosse di Trump seguano un disegno coerente o logiche estemporanee.
La nuova guerra dei dazi: tariffe altalenanti e impatto globale
Parallelamente alle tensioni militari, il 2025 ha visto riaccendersi con veemenza un altro fronte di scontro aperto da Donald Trump: la guerra commerciale su dazi e tariffe. Fin dal suo insediamento nel gennaio 2025 per il secondo mandato, Trump ha ripreso la linea protezionista dell’“America First” sospesa sotto Biden, lanciando un’offensiva tariffaria su più fronti. In pochi mesi, gli Stati Uniti hanno imposto o minacciato dazi doganali punitivi contro un’ampia gamma di Paesi – alleati compresi – creando scosse telluriche nell’economia globale. La natura delle misure adottate è stata ondivaga: a fasi di improvvisi rialzi tariffari hanno fatto seguito annunci di sospensioni temporanee, in un’altalena che ha disorientato partner e mercati. Inoltre, Trump ha gestito la comunicazione di queste politiche quasi esclusivamente via social media (Twitter, e soprattutto il suo social Truth), con messaggi spesso estemporanei e contraddittori rispetto alle posizioni ufficiali, contribuendo ad alimentare incertezza.
La nuova guerra dei dazi è partita col piede pesante già a inizio anno. Il 12 marzo 2025 sono entrati in vigore dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio negli USA, replicando le aliquote della prima amministrazione Trump e anzi estendendole a prodotti finiti contenenti quei materiali (dalle racchette da tennis alle biciclette, dai mobili ai condizionatori). Non pago, Trump ha rincarato ulteriormente la dose pochi mesi dopo: dal 4 giugno 2025 i dazi su acciaio e alluminio sono stati addirittura raddoppiati al 50%, aggravando le ripercussioni su settore manifatturiero americano ed europeo. Già questo drastico incremento – giustificato da Trump come leva per “proteggere l’industria nazionale” – ha provocato immediate proteste dagli esportatori stranieri e messo in allarme gli economisti per il potenziale effetto inflazionistico. L’Unione Europea, colpita in pieno (dato che acciaio e alluminio europei erano esenti dai dazi durante Biden), ha reagito annunciando contromisure equivalenti: Bruxelles ha compilato una lista di dazi di ritorsione su vari prodotti statunitensi per un valore complessivo di 26 miliardi di euro annui. Era solo l’inizio. Il 27 marzo, Trump ha lanciato un altro siluro: ha annunciato tariffe del 25% sulle automobili importate negli USA dal 2 aprile 2025, un provvedimento diretto soprattutto contro l’industria tedesca e giapponese, oltre che contro le case coreane. L’annuncio ha scatenato immediate reazioni: le borse europee hanno subito forti ribassi temendo un crollo dell’export automobilistico (per l’Italia si stimava a caldo un calo di crescita del PIL tra 0,3 e 0,6% dovuto ai dazi). Trump ha rincarato la minaccia, dichiarandosi pronto a introdurre ulteriori dazi se UE e Canada avessero osato rispondere coordinandosi contro di lui. Questa dichiarazione – percepita come un attacco frontale anche a Paesi storicamente amici – ha iniziato a far intravedere una “guerra commerciale globale”.
La vera deflagrazione è avvenuta ai primi di aprile. Il 2 aprile 2025, da un palco elettorale in stile comizio trasmesso poi su Truth, Trump ha sorpreso tutti annunciando una vastissima introduzione di nuovi dazi verso oltre 100 Paesi, inclusi tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. In sostanza, l’amministrazione USA ha imposto dazi doganali aggiuntivi su quasi ogni partner commerciale significativo, con un approccio definito “reciproco” da Trump: si è partiti da un’aliquota base del 10% su tutte le importazioni, poi aumentata in misura variabile Paese per Paese in base a come, secondo Washington, ciascuno “trattava” gli USA. Ad esempio, per i Paesi UE (accusati da Trump di barriere sleali verso i prodotti americani), il dazio extra è stato fissato inizialmente al 10% + 10% = 20% dal 9 aprile. Il 3 aprile – appena il giorno dopo l’annuncio di Trump – la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha reagito proclamando “ulteriori contromisure commerciali” verso i prodotti USA, avvertendo che i dazi americani avrebbero “conseguenze terribili per milioni di persone in tutto il mondo, provocando incertezza per i mercati, danni ai cittadini più vulnerabili con l’aumento dell’inflazione”. L’allarme europeo era condiviso da molti economisti: la prospettiva di una spirale di ritorsioni stava minando la fiducia globale e portando volatilità alle stelle. Alla riapertura dei mercati dopo le mosse americane, le borse hanno sbandato: volatilità alle stelle e perdite generalizzate. In meno di una settimana dal lancio della “guerra dei dazi”, le borse mondiali hanno visto bruciare 14.500 miliardi di dollari di capitalizzazione (circa il 6% del totale, pari – come osservato da analisti – a oltre 50.000 $ persi in media per ogni cittadino americano). Persino i titoli di Stato USA hanno subito contraccolpi: i rendimenti dei Treasury a 10 anni sono balzati dal 4% al 4,5% in pochi giorni – un segnale preoccupante di sfiducia nella stabilità finanziaria americana. Il dollaro, solitamente bene rifugio, ha inspiegabilmente perso valore di fronte a euro e yen, sintomo di nervosismo globale. In parallelo le previsioni di crescita hanno iniziato a essere riviste al ribasso: l’OCSE ha avvertito che le prospettive di crescita globale stavano rallentando e anche le aspettative sull’economia USA peggioravano. Un indice composito di “Economic Policy Uncertainty” a livello mondiale ha toccato livelli più alti che durante la pandemia Covid, principalmente a causa dell’agenda del presidente USA.
Inizialmente Trump ha mostrato toni baldanzosi, definendo il 2 aprile come una sorta di “giorno della liberazione” dalle catene del libero commercio sbilanciato, e twittando frasi come “trade wars are good, and easy to win” (riecheggiando un suo famoso tweet del 2018) per galvanizzare la sua base. Al Tesoro, il segretario Scott Bessent ha difeso la linea dura sostenendo che se la Cina avesse reagito alzando i dazi contro gli USA, Pechino avrebbe perso comunque – poiché “esportano in America cinque volte quello che noi esportiamo da loro, quindi hanno la mano peggiore”. In sostanza, l’amministrazione era convinta di avere una posizione di forza (“escalation dominance” in gergo strategico) che le avrebbe permesso di vincere il braccio di ferro commerciale. Ma questa convinzione si è scontrata rapidamente con la realtà dei mercati e delle reazioni politiche, innescando un dietrofront clamoroso.
Appena 48 ore dopo aver giurato che non avrebbe fatto marcia indietro, Trump ha fatto marcia indietro. Nella serata di mercoledì 9 aprile (ora italiana), con un post a sorpresa su Truth Social, il presidente ha annunciato una sospensione temporanea di 90 giorni dei nuovi dazi verso l’Europa e altri Paesi alleati, mantenendo però la linea dura con la Cina. Questo colpo di scena è avvenuto così in fretta che ha preso in contropiede persino i funzionari della sua amministrazione: pochi minuti prima dell’annuncio sui social, al Campidoglio il Rappresentante per il Commercio USA (USTR) Jamieson Greer stava animatamente difendendo davanti ai parlamentari proprio quei dazi che, letteralmente il giorno prima, erano entrati ufficialmente in vigore, ignaro che Trump li stava per “congelare” con un messaggio online. Greer – come molti altri – è rimasto spiazzato dal fatto che Trump comunicasse un cambio di politica così importante via social media senza preavviso ai suoi stessi collaboratori. Nel suo post, Trump ha cercato di presentare la decisione come una mano tesa agli amici che avevano chiesto di negoziare, ma la tempistica e le modalità hanno tradito un’altra motivazione: è apparso piuttosto come una frenata d’emergenza per evitare una crisi finanziaria negli Stati Uniti. Infatti, dietro le quinte, alcuni consiglieri economici (tra cui il segretario al Tesoro Scott Bessent e il segretario al Commercio Howard Lutnick) lo avevano pressato con forza affinché rivedesse la strategia, allarmati dal panico dei mercati. A pesare ancor di più sembra essere stata la voce del mondo finanziario: il 9 aprile stesso, Jamie Dimon, influente CEO di JPMorgan Chase, aveva dichiarato su Fox News che i dazi di Trump stavano rendendo “probabile” una recessione imminente. Poche ore dopo, Trump – colpito da quell’autorevole parere – ha sorprendentemente definito Dimon “un genio della finanza” e si è affrettato a invertire la rotta. Questa sequenza di eventi mostra quanto la comunicazione di Trump in materia economica sia stata impulsiva e guidata dall’istinto politico-mediatico, più che da una strategia coerente: di fronte al rischio di un crollo di Wall Street e di un’ondata di scontento popolare (per l’aumento dei prezzi e la perdita di risparmi in borsa), il presidente ha premuto il pulsante di pausa, cercando di trasformare la sconfitta in una mossa tattica.
L’esito è stato un armistizio commerciale su due fronti distinti. Da un lato, Trump ha “graziato” gli alleati occidentali sospendendo i dazi verso oltre 75 Paesi (in gran parte Europa, Canada, America Latina, ecc.) portandoli al 10% fisso per 90 giorni. In parallelo, l’UE – che proprio il 9 aprile aveva approvato i suoi contro-dazi – ha annunciato di voler “dare una possibilità ai negoziati”, congelando le misure appena approvate. La presidente von der Leyen ha però avvertito che “tutte le opzioni restano sul tavolo” se le trattative non produrranno risultati accettabili. Dall’altro lato, Trump ha inasprito ulteriormente lo scontro con la Cina, rendendola il bersaglio principale della guerra commerciale: “da guerra commerciale globale, lo scontro è diventato sempre più una guerra commerciale alla Cina”, ha osservato la stampa. Pechino infatti è stata l’unica a non beneficiare della sospensione: le tariffe punitive totali sui beni cinesi sono state elevate fino al 145% – come confermato dalla Casa Bianca e riportato da CNBC – sommando il nuovo dazio addizionale del 125% annunciato da Trump ai precedenti 20% già in vigore. Un livello folle e praticamente “inimmaginabile fino a poco tempo fa”, che ha sbalordito analisti e diplomatici. La Cina ovviamente ha risposto con “alti contro-dazi” a loro volta (fino all’84% su alcuni beni USA, secondo alcune fonti), mostrando di non voler cedere sotto pressione. Non solo: Pechino ha colpito gli USA anche in modi indiretti, ad esempio bloccando per un mese le consegne di aerei Boeing alle compagnie cinesi, decisione revocata solo dopo la tregua di maggio. Inoltre ha criticato gli accordi commerciali bilaterali che Trump intanto stringeva con altri partner (come quello USA-Regno Unito, giudicato da Pechino un tentativo di escludere la Cina dalle catene di approvvigionamento occidentali). Insomma, lo scenario ad aprile era quello di una America che concentra il conflitto economico sulla Cina, cercando al contempo di non aprire troppi fronti insieme.
Le tensioni USA-Cina hanno però trovato una momentanea distensione a maggio. Dopo settimane di negoziati frenetici (facilitati anche dall’OMC), le delegazioni americana e cinese si sono incontrate a Ginevra e hanno partorito un accordo di compromesso definito dalla stampa una “tregua temporanea in una brutale guerra commerciale”. L’intesa, annunciata nel weekend del 12 maggio, prevede un “cessate il fuoco tariffario” di 90 giorni durante il quale entrambe le parti riducono drasticamente i dazi aggiuntivi. In pratica, gli Stati Uniti hanno accettato di ridurre i dazi medi sui prodotti cinesi al 30%, mentre la Cina ha abbassato i propri al 10%, il che significa tagliare oltre 100 punti percentuali di tariffe cumulative rispetto ai picchi precedenti. Più nel dettaglio, Washington ha sospeso 24 dei 34 punti percentuali di dazio addizionale stabiliti da Trump con l’ordine esecutivo del 2 aprile, mantenendo “solo” un’aliquota extra residua del 10%. Ha inoltre annullato i successivi aumenti decisi l’8 e 9 aprile. Simmetricamente, Pechino ha fatto lo stesso: ha tagliato le sue aliquote aggiuntive fino a scendere al 10% sui beni USA, sospendendo 24 punti percentuali di dazi contro gli Stati Uniti e revocando altre contromisure non tariffarie adottate dal 2 aprile. Il risultato è stato salutato dai mercati con un sospiro di sollievo: il dollaro è balzato immediatamente dell’1-1,5% contro euro e yen dopo la notizia della sospensione dei dazi, e le borse – in particolare quelle asiatiche – hanno recuperato terreno (Tokyo +8,5%, Taipei +9,2% in un giorno). Gli osservatori hanno sottolineato come questo accordo fosse solo una tregua temporanea, non una pace definitiva: entrambe le parti hanno istituito meccanismi di dialogo per discutere ulteriormente le relazioni economiche future, ma resta il nodo di come risolvere le differenze strutturali (protezionismo cinese, deficit USA, tutela di proprietà intellettuale, ecc.) entro tre mesi. Intanto, però, la riduzione delle tariffe è entrata in vigore il 14 maggio e ha segnato una de-escalation importante. È indicativo notare che nel comunicato congiunto di Ginevra entrambe le parti hanno riconosciuto “l’importanza delle relazioni economiche bilaterali”, segno che né Washington né Pechino potevano permettersi davvero una rottura totale.
Nonostante i parziali passi indietro, la guerra dei dazi trumpiana ha già lasciato segni tangibili sull’economia globale e sulle relazioni diplomatiche. In primis, ha sconvolto le catene di approvvigionamento internazionali, alimentando sfiducia tra gli operatori: molte imprese si sono ritrovate da un giorno all’altro con costi di importazione raddoppiati o triplicati, sospendendo investimenti e ordini in attesa di chiarezza. Settori come l’automotive, l’aerospaziale, l’agroalimentare hanno sofferto di questa incertezza. I flussi commerciali hanno subito una contrazione immediata: l’annuncio e l’applicazione della prima tranche di dazi hanno frenato gli scambi, creando un clima di sfiducia che rischia di spingere l’economia verso una nuova grave recessione. Inoltre, la percezione dell’America come partner economico affidabile è stata intaccata: alleati storici come l’Europa o il Canada si sono trovati trattati al pari di rivali, con tariffe punitive senza distinzione – “senza preferenze per Paesi alleati o prodotti strategici per l’economia USA”, come ha notato un’analisi, lasciando sgomenti molti osservatori. Questo approccio ha isolato gli Stati Uniti sul piano internazionale: nel momento di massimo irrigidimento (primi di aprile) Washington si è trovata contro non solo Cina e Russia, ma anche l’UE, il Regno Unito, il Giappone, e via dicendo – praticamente “il resto del mondo è ora soggetto a dazi dal 10% al 50%”, ha scritto il Center for American Progress, definendo la mossa “uno dei peggiori errori di politica economica nella storia americana”. Per la reputazione degli USA come leader della libera impresa globale, è stato un colpo durissimo.
In patria, gli effetti economici si sono immediatamente manifestati per imprese e consumatori. Le famiglie americane pagano il prezzo dei dazi sotto forma di prezzi più alti: i beni importati tassati costano di più, e molte aziende hanno trasferito questi costi ai consumatori finali. L’inflazione, già elevata nel 2024, ha rischiato di subire un’ulteriore spinta. Contestualmente, milioni di risparmiatori USA hanno visto erodere i propri investimenti azionari quando la borsa è crollata dopo le mosse di Trump. E paradossalmente, malgrado la retorica sull’industria nazionale, diversi settori produttivi americani soffrono i contraccolpi: agricoltori e allevatori hanno dovuto fronteggiare le ritorsioni cinesi che hanno colpito soia, mais, carni (mercati cruciali per il Midwest); l’industria automobilistica USA, che dipende da componenti globali, è penalizzata dai dazi sulle forniture dall’estero – al punto che Trump ha parlato di misure per aiutare temporaneamente le case auto americane ad adattarsi. Il paradosso è che gli stessi repubblicani pro-Trump degli Stati agricoli si sono allarmati. Questo spiega almeno in parte perché, di fronte al rischio recessione, Trump abbia ricalibrato il tiro in corso d’opera.
Comunicazione “social” e tensioni diplomatiche
Un elemento peculiare di questa nuova guerra dei dazi è stata la modalità di comunicazione di Trump, che ha amplificato la sensazione di volatilità. Il presidente ha utilizzato il suo megafono preferito – i social network – per fare annunci clamorosi e minacciare partner, spesso in modo improvviso. Sul suo social Truth, Trump ha pubblicato post in maiuscolo e con punti esclamativi per celebrare i dazi come vittoria patriottica, oppure per inveire contro Paesi “disonesti” che a suo dire approfittavano degli USA. Questa comunicazione sopra le righe ha irritato profondamente le cancellerie alleate. Diplomatici europei riferiscono di essere venuti a conoscenza di nuove politiche tariffarie dal feed social di Trump prima che dai canali ufficiali, in quello che molti hanno definito un metodo umiliante e poco trasparente di condurre le relazioni internazionali. Emblematico è il caso già citato del tweet/post del 9 aprile: nel giro di minuti, Trump ha ribaltato la politica commerciale via social, costringendo gli ambasciatori a Washington a chiamare d’urgenza la Casa Bianca per conferme. Questa imprevedibilità comunicativa ha anche aperto la porta a speculazioni finanziarie: gli annunci di Trump e le smentite a stretto giro hanno creato oscillazioni anomale nei mercati, e c’è chi insinua che gruppi vicini all’amministrazione possano averne approfittato. Il Parlamento italiano, in una mozione bipartisan, ha sottolineato come “le scelte del tutto soggettive e imprevedibili sulla sospensione dei dazi da parte di Trump, con annunci e smentite ravvicinate, abbiano creato oscillazioni nei mercati finanziari che hanno consentito operazioni speculative di dubbia legalità”. In altri termini, l’andamento ondivago dei dazi ha sollevato il sospetto che qualcuno potesse arricchirsi scommettendo sui saliscendi provocati dai tweet presidenziali – un’ombra di opacità che getta discredito sulla gestione trumpiana.
Sul piano diplomatico, la guerra dei dazi ha portato le tensioni tra gli Stati Uniti e i suoi principali partner commerciali a livelli inediti dai tempi del dopoguerra. I rapporti con l’Unione Europea in particolare hanno vissuto momenti di forte frizione. Pur avendo evitato lo scontro frontale grazie alla sospensione, la fiducia è minata. Si è molto discusso della proposta – riportata da organi di stampa – di un possibile accordo transatlantico in cui l’UE accetterebbe una tariffa fissa del 10% su tutte le esportazioni verso gli USA per chiudere la disputa. Questo sarebbe per l’Europa un amaro compromesso, ma considerato preferibile all’incubo prospettato da Trump: il 24 maggio, esasperato dall’andamento lento dei negoziati, Trump ha minacciato pubblicamente di applicare dazi al 50% sui prodotti europei se non si fosse giunti a un accordo. Dopo una simile “pistola sul tavolo”, i negoziatori UE avrebbero ventilato l’idea di concedere un tetto del 10% per placare Washington. Resta da vedere se un’intesa del genere (uno “Zollpakt” moderno) vedrà la luce; di certo, mai dai tempi delle guerre commerciali degli anni ’30 si era arrivati a ipotizzare dazi generalizzati del 10% tra Europa e America, il che dà la misura del trauma in corso.
Con la Cina, la relazione è precipitata in una nuova Guerra Fredda economica. Anche se la tregua di maggio ha calmato le acque, la sfiducia tra Washington e Pechino è ai massimi storici. Le élite cinesi considerano Trump inaffidabile e aggressivo; quelle americane accusano la Cina di espansionismo economico. Se la tregua non sfocerà in accordi strutturali, c’è il rischio concreto che allo scadere dei 90 giorni la guerra commerciale riprenda e addirittura peggiori – Trump ha già minacciato di alzare le tariffe ancora oltre il 145% se Xi Jinping non farà concessioni su proprietà intellettuale e deficit commerciale. Ciò potrebbe portare a una rottura permanente delle filiere sino-americane, con costi altissimi per entrambe le economie ma specialmente per i consumatori e le imprese americane dipendenti dai prodotti cinesi. “Questa guerra commerciale attuale è una ricetta per una sconfitta quasi certa, a costi enormi” avverte Adam Posen (presidente del Peterson Institute), sottolineando che finché gli USA dipendono dai beni cinesi che non possono rimpiazzare a breve, Pechino avrà un vantaggio d’escalation. In sintesi, la strategia tariffaria di Trump rischia di fallire nei suoi obiettivi dichiarati (riequilibrare la bilancia commerciale e riportare posti di lavoro manifatturieri in patria): costringerà semmai le famiglie americane a pagare di più e non riuscirà a far rientrare le produzioni delocalizzate. Nel frattempo, avrà cementato un asse sino-russo di convenienza contro gli USA.
Impatto sull’opinione pubblica statunitense
All’interno degli Stati Uniti, la “guerra dei dazi 2.0” di Trump ha alimentato un dibattito acceso e polarizzato. In generale, i sondaggi mostrano una popolazione più favorevole al libero scambio di quanto si pensasse: oltre l’80% degli americani ritiene che il commercio internazionale sia un’opportunità di crescita economica, la percentuale più alta mai registrata da Gallup dal 1992. Sorprendentemente, questo dato è aumentato di 20 punti nell’ultimo anno, raggiungendo il picco proprio dopo il ritorno di Trump. Gli analisti interpretano questa crescita in due modi: da un lato, molti repubblicani si fidano che Trump sappia negoziare accordi migliori per gli USA, quindi sostengono il commercio (in teoria) perché credono che il presidente lo gestirà a vantaggio americano. Dall’altro lato, i democratici – tradizionalmente più scettici verso la globalizzazione in alcuni casi – si sono compattati in difesa del libero scambio in contrapposizione a Trump, percependo i suoi dazi come dannosi e quindi vedendo il trade come qualcosa di positivo da salvaguardare. C’è anche da dire che la domanda del sondaggio enfatizzava le “opportunità derivanti dall’aumento delle esportazioni USA”, una formulazione che ha aumentato il consenso anche tra i repubblicani, allineandola alla visione trumpiana di “più export, meno import”.
Tuttavia, quando si passa dal principio generale alle politiche concrete, l’opinione pubblica è meno entusiasta dei dazi di Trump. Un sondaggio Economist/YouGov di inizio aprile ha chiesto agli americani se approvassero o meno i dazi annunciati: il 52% si è detto contrario ai dazi di Trump, a fronte di un 36% favorevole. La disapprovazione prevale dunque, benché con marcate differenze partitiche: tra i democratici, il saldo negativo è enorme (solo un 11% approva, contro il 90% circa che disapprova, per un net -79); anche tra gli indipendenti prevale il no (net -29). Tra i repubblicani invece la maggioranza sostiene la politica dei dazi (net +57), segno che la base GOP appoggia quasi per disciplina di partito le mosse di Trump. Colpisce anche la consapevolezza diffusa: il 73% dei democratici e il 53% dei repubblicani erano al corrente dei “dazi reciproci” minimi del 10% su tutti i Paesi e dei picchi molto più alti su alcuni, il che indica che il tema ha bucato il dibattito pubblico. In sintesi, l’opinione pubblica USA è spaccata: la maggioranza teme che la guerra commerciale faccia più male che bene (timori di recessione, prezzi alti, isolamento internazionale), mentre la base trumpiana la vede come un male necessario per ottenere accordi più equi.
Sul piano politico interno, questa situazione ha creato tensioni all’interno dello stesso Partito Repubblicano. Molti legislatori repubblicani tradizionalmente pro-business (soprattutto quelli vicini alle lobby agricole e industriali) hanno espresso preoccupazione a porte chiuse, temendo il contraccolpo economico sui propri distretti. Tuttavia, pubblicamente quasi tutti hanno appoggiato il presidente, almeno finché l’economia regge. Il timore dei repubblicani è di ripetere l’errore del 1930 (Tariffe Smoot-Hawley) e presentarsi alle elezioni di metà mandato del 2026 con un’economia in difficoltà a causa di politiche protezionistiche. I democratici, al contrario, hanno trovato nei dazi di Trump un bersaglio polemico ideale: lo accusano di aver “lasciato che la sua ossessione per i deficit commerciali isolasse l’America sulla scena mondiale”, infliggendo una tassa occulta ai consumatori americani e contemporaneamente alienandosi gli alleati. Alcuni esponenti liberal hanno definito i dazi “la tassa Trump”, da far pesare in campagna elettorale sulle famiglie con l’aumento dei costi. Nel complesso, il consenso attorno alla guerra commerciale è molto più fragile di quanto Trump avesse in precedenza con la sua base sulle questioni immigratorie o securitarie. Ciò spiega perché, diversamente dal 2018, questa volta il presidente ha dovuto modulare e in parte retrocedere dalle posizioni massimaliste piuttosto rapidamente.
In conclusione, la “nuova guerra dei dazi” di Trump ha proiettato un’ombra di incertezza sull’economia globale e ha innescato tensioni senza precedenti con Europa, Cina e partner storici. Pur avendo ottenuto temporaneamente alcune concessioni (come la riduzione dei dazi cinesi e l’apertura di trattative con l’UE), il modo caotico e aggressivo con cui ha proceduto ha fatto dubitare della presenza di una strategia solida. Nel breve termine, i mercati hanno vissuto montagne russe e la crescita globale ha subito un raffreddamento. Nel medio termine, resta da vedere se Trump userà la tregua per siglare “vittorie” (nuovi accordi commerciali bilaterali) o se riaprirà le ostilità tariffarie, mantenendo il mondo col fiato sospeso. Di certo, la sua gestione personalistica via social di un tema così complesso rappresenta un elemento di instabilità che gli altri leader mondiali faticano a decifrare.
Dall’alleanza alla rottura con Elon Musk: politica industriale e colpi di scena
Un ulteriore capitolo emblematico dell’instabilità trumpiana nel 2025 è il rapporto fluttuante con attori strategici del settore privato, in particolare con l’uomo più ricco del mondo e figura di spicco dell’industria tecnologica: Elon Musk. La relazione tra Trump e Musk ha conosciuto un’evoluzione repentina e spettacolare, passando da un’inedita collaborazione quasi simbiotica all’ostilità aperta nel giro di poche settimane. Questa parabola, fatta di endorsement entusiastici seguiti da liti pubbliche al vetriolo, ha avuto conseguenze sia sulla politica industriale e tecnologica americana sia sulla percezione pubblica di entrambi i protagonisti.
All’inizio del 2025, Elon Musk era considerato uno degli alleati più sorprendenti e influenti di Donald Trump. Il riavvicinamento era iniziato a metà 2024, quando Musk esplicitamente sostenne la candidatura di Trump alla presidenza, rompendo con la Silicon Valley liberal e investendo il suo capitale politico a destra. Nel luglio 2024 Musk iniziò a endorsare pubblicamente Trump, e seguì il sostegno materiale: il miliardario ha versato centinaia di milioni di dollari nella campagna elettorale di Trump, diventandone uno dei principali finanziatori privati. Non era un mistero che Musk detestasse alcune politiche regolatorie democratiche e vedesse in Trump un veicolo per i propri interessi (meno tasse, meno vincoli ambientali per Tesla, più contratti spaziali per SpaceX). Trump, dal canto suo, era ben felice di abbracciare un imprenditore visionario e popolare: ne guadagnava un’aura di modernità e innovazione, oltre che un accesso privilegiato ai seguaci di Musk (decine di milioni sui social). Durante la campagna elettorale e nei primi mesi di mandato, i due hanno ostentato un ottimo rapporto in moltissime occasioni. Solo per fare un esempio, a marzo 2025 Trump ha invitato Musk alla Casa Bianca per una conferenza stampa congiunta: sul prato sono state esposte auto Tesla come simbolo di successo americano, e Trump ha lodato Musk definendolo un genio imprenditoriale, scherzando perfino sul loro legame (i media avevano coniato il termine “Trump-Musk bromance”). In quell’evento – che celebrava la conclusione dell’incarico di Musk come capo di un dipartimento governativo – Trump ha persino dichiarato che “Elon in realtà non se ne sta andando”, suggerendo che Musk avrebbe continuato ad avere un ruolo influente nell’amministrazione. Infatti, uno dei frutti più tangibili della loro alleanza era stata la creazione di un nuovo ente governativo su misura per Musk: il Dipartimento per l’Efficienza Governativa (Department of Government Efficiency, abbreviato ironicamente Doge), affidato proprio a Musk con il compito di tagliare sprechi e burocrazia. Si trattava di un esperimento unico: mai un presidente USA aveva dato a un magnate tech esterno un accesso e un’influenza così profondi all’interno della Casa Bianca. Musk, di fatto, giocava un duplice ruolo: insider di governo con mano libera di proporre riforme radicali e insieme megafono esterno che amplificava l’agenda trumpiana ai suoi milioni di follower online. Per mesi Elon Musk è stato contemporaneamente consigliere ufficioso, testimonial e “influencer di Stato” per Trump, attaccando su X (il vecchio Twitter, da lui acquistato e rinominato) i bersagli dell’amministrazione – dalla “burocrazia fannullona” ai politici anti-Trump – e promuovendo le iniziative presidenziali.
Sul piano della politica industriale e tecnologica, l’asse Trump-Musk sembrava destinato a lasciare un’impronta significativa. Musk ha promosso con Trump un’agenda di deregolamentazione e taglio della spesa pubblica. Nel suo ruolo al Dipartimento per l’Efficienza, ha passato al setaccio i bilanci federali cercando riduzioni: sebbene i risultati pratici siano stati modesti (ha tagliato solo “circa la metà dell’1%” della spesa totale, ben lontano dai $2.000 miliardi di tagli che Musk ventilava inizialmente), la sua presenza ha portato temi come l’innovazione, la digitalizzazione e l’approccio ingegneristico-problem solving nel discorso politico. Inoltre, Musk ha potuto orientare alcune scelte strategiche: ad esempio, ha spinto per la cancellazione del costosissimo razzo SLS della NASA a favore di soluzioni più economiche (leggasi SpaceX). E in effetti nel budget di maggio Trump ha proposto di cancellare lo Space Launch System della NASA, percepito come inefficiente e in ritardo. Questo coincideva con gli interessi di Musk, la cui SpaceX avrebbe tratto vantaggio dall’eventuale spostamento di fondi sui lanci commerciali. Trump ha anche nominato figure gradite a Musk in posizioni chiave: emblematico il caso di Jared Isaacman, imprenditore vicino a Musk e comandante di missioni SpaceX, che Trump ha nominato amministratore della NASA all’inizio del 2025 (nomina che poi, come vedremo, è saltata). Nel campo automobilistico, Trump e Musk sembravano in sintonia sulla necessità di ridurre gli incentivi ai veicoli elettrici prodotti all’estero e favorire invece la produzione domestica di EV (questo favoriva Tesla rispetto ai concorrenti stranieri). Insomma, in quella prima fase Musk è apparso come una sorta di “ministro ombra” della tecnologia e dell’innovazione per Trump, con ricadute positive per le sue aziende (si pensi solo alla pubblicità di vedere le Tesla parcheggiate alla Casa Bianca e il presidente promuoverle attivamente). Non a caso, Tesla ha beneficiato di questo rapporto privilegiato: finché Musk era nella cerchia di Trump, gli investitori percepivano l’azienda al riparo da rischi normativi, e il titolo azionario TSLA ha vissuto un periodo di forte crescita.
Tuttavia, questa alleanza strategica e personale si è deteriorata bruscamente a metà 2025. Le prime crepe sono emerse su questioni di politica economica interna. In particolare, Musk ha iniziato ad attaccare un progetto di legge chiave voluto da Trump: una maxi riforma fiscale e di spesa pubblica soprannominata dalla Casa Bianca “Big Beautiful Bill”. Questo disegno di legge, passato alla Camera e in attesa di voto al Senato, prevede forti tagli alle tasse combinati con aumenti di spesa in vari settori, e secondo il Congressional Budget Office aggiungerebbe ben $2.400 miliardi al debito pubblico entro il 2034. Elon Musk – notoriamente attento ai conti futuri – ha visto questa manovra come fiscalmente irresponsabile. Già negli ultimi giorni di maggio, Musk aveva cominciato a lanciare su X critiche sempre più personali verso Trump e il suo disegno di legge, definendolo “un abominio disgustoso” dal punto di vista finanziario e accusando il governo di ipocrisia sul fronte spesa-deficit. Ha sostenuto che avrebbe osteggiato qualunque parlamentare repubblicano avesse votato a favore di quella legge, ventilando la possibilità di finanziare campagne contro di loro. Insomma, Musk è passato de facto all’opposizione interna su questo tema, preoccupando non poco i repubblicani: uno stratega vicino a Trump, citato da Wired, ha confessato che “se Musk riesce a spostare anche solo qualche voto e far fallire la legge, per Trump Elon sarebbe morto”, tanto grave sarebbe il tradimento ai suoi occhi. In un primo momento, Trump ha reagito con cautela: in un meeting a porte chiuse alla Casa Bianca, il presidente si è detto confuso e frustrato per gli attacchi di Musk, ma ha evitato di reagire pubblicamente perché sperava ancora di conservare il suo sostegno fino alle elezioni di midterm del 2026. Privatamente, pare abbia definito Musk “volatile” e imprevedibile, ma era riluttante a rompere sapendo quanto Musk fosse popolare tra certi elettorati e quanto denaro potesse ancora convogliare nelle casse repubblicane.
Questa tregua armata è durata poco. Il 5-6 giugno la situazione è precipitata in modo clamoroso e pubblico, dando luogo a “una lite furibonda a mezzo social” che ha tenuto banco sulle prime pagine. Tutto è esploso quando, durante una conferenza stampa nello Studio Ovale con il cancelliere tedesco Friedrich Merz, a Trump è stata chiesta un’opinione sul deterioramento dei rapporti con Musk. Trump ha risposto davanti alle telecamere con tono gelido: “Io ed Elon abbiamo avuto un ottimo rapporto. Non so se continuerà ad esserlo”, paragonando Musk ad ex collaboratori che a suo dire hanno sviluppato una “Trump Derangement Syndrome” (psicosi anti-Trump) dopo aver lasciato l’amministrazione. Era un chiaro affronto: Trump insinuava che Musk, uscito dal ruolo governativo, fosse impazzito di rancore come altri “traditori” del passato. Inoltre, Trump ha minimizzato le critiche definendo Musk “arrabbiato solo per gli incentivi alle auto elettriche” (in quanto il Big Beautiful Bill riduce alcuni sussidi EV). Pochi minuti dopo, Musk ha replicato furiosamente su X, smentendo Trump: ha invitato il presidente a “mantenere i tagli agli incentivi per i veicoli elettrici” (quindi non era quello il problema) ma “eliminare le disposizioni che innalzano sensibilmente il debito”. Quindi Musk ha rivendicato il suo ruolo nelle fortune politiche di Trump, twittando: “Senza di me, Trump avrebbe perso le elezioni. I Democratici controllerebbero la Camera e i repubblicani sarebbero 51-49 al Senato”. Un’affermazione assai provocatoria, che accredita a sé stesso il merito della vittoria repubblicana – non esattamente il miglior modo per placare l’ego di Trump.
Da quel momento, lo scontro è degenerato su scala 1:1 tra i due sul terreno dei social media e non solo. Giovedì 5 giugno Trump, furibondo dopo aver letto l’ennesima “tirade da fuori di testa” di Musk su X (così l’ha definita un suo assistente), ha deciso di “togliersi i guanti”. Ha convocato i giornalisti e, seduto accanto al cancelliere Merz, si è detto “molto deluso” dal suo ex consigliere Elon Musk. Subito dopo, è passato all’attacco su Truth Social: “Il modo più facile per risparmiare soldi nel nostro bilancio, miliardi e miliardi, è terminare i sussidi e i contratti governativi di Elon” – ha postato Trump, minacciando esplicitamente di tagliare ogni flusso di fondi federali verso le aziende di Musk. Era una dichiarazione-shock: il presidente degli Stati Uniti ventilava di cancellare contratti militari e spaziali vitali (SpaceX ha contratti per lanci NASA/Difesa stimati in 22 miliardi di dollari ancora da eseguire), e di revocare sussidi (ad esempio crediti d’imposta per auto elettriche che comunque Musk stava già perdendo). Pochi minuti dopo, Musk ha lanciato la controffensiva su X: ha endorsato il post di un noto attivista di destra (Ian Miles Cheong) che addirittura chiedeva l’impeachment di Trump, e ha commentato che forse “è ora di creare un nuovo partito politico negli Stati Uniti, per rappresentare l’80% di moderati in mezzo”. Quest’ultimo messaggio è apparso come un casus belli definitivo: Musk evocava la possibilità di una scissione politica che rompesse il duopolio repubblicani-democratici, erodendolo da destra/centro. Per Trump, già sotto impeachment per i fatti di gennaio 2021 prima della rielezione, sentirsi invocare la destituzione da un ex alleato deve essere stato intollerabile.
Il 6-7 giugno la rottura era conclamata. Un funzionario della Casa Bianca ha dichiarato che “il presidente non è interessato a parlare con Musk” e che nessuna telefonata di riconciliazione era in programma. Trump, parlando con i reporter a bordo dell’Air Force One, ha detto che non stava “pensando a Musk” e gli ha augurato sarcasticamente buona fortuna con Tesla. Ha però confermato che verrà condotta “una revisione di tutti gli ampi contratti federali di Musk”, ribadendo “vedremo, sono un sacco di soldi” e facendo sapere tramite un collaboratore che potrebbe perfino liberarsi della Tesla Model S rossa che aveva comprato in marzo per promuovere Musk. Era evidente che Trump intendeva punire Musk economicamente. Dal canto suo, Musk ha continuato a criticare il “Big beautiful bill” definendolo “una follia che affonda i conti pubblici e danneggia i repubblicani” – ha perfino risposto “exactly” a un utente che notava come Trump avesse preso la critica alla legge sul personale, attaccando Musk, anziché rispondere nel merito. Musk su X ha anche ribadito la sua idea di un nuovo partito centrista, segno che la spaccatura politica era consumata.
Questa rovente faida pubblica ha avuto conseguenze immediate e di vasta portata. Sul fronte finanziario, gli investitori si sono spaventati: il titolo Tesla ha perso il 14% in un solo giorno (giovedì 5 giugno), bruciando 150 miliardi di dollari di capitalizzazione – il calo giornaliero più grande nella storia dell’azienda. La paura era che se Trump avesse davvero cancellato gli appalti con SpaceX o colpito Tesla (ad esempio escludendola dagli acquisti governativi o introducendo restrizioni), le entrate future di quelle società ne avrebbero risentito. Il giorno seguente, venerdì, l’azione Tesla ha recuperato parte del terreno (+X%) quando è parso che i toni si raffreddavano leggermente, ma la volatilità resta alta e molti analisti parlano di “fattore politico” ora incorporato nei titoli Musk. Sul fronte politico, il breakup Musk-Trump ha gettato nel panico diversi repubblicani. Musk finora aveva rappresentato un ponte tra Trump e certi ambienti tech e libertari, portandogli donazioni (il suo superPAC “America PAC” ha contribuito enormemente nel 2024) e visibilità su social non tradizionalmente pro-GOP. Perdere Musk significa per Trump rischiare di alienare una fascia di elettorato giovane, white-collar, appassionato di tecnologia, che magari aveva votato repubblicano affascinato dalla presenza di Musk. Significa anche potenzialmente perdere finanziamenti: Musk “ha finanziato gran parte della campagna 2024 di Trump”, e se dovesse togliere il suo appoggio economico (o peggio, finanziare candidati rivali/moderati), il Partito Repubblicano ne risentirebbe. Un senatore GOP (anonimamente) ha dichiarato che “il partito era convinto che la partnership avrebbe retto, il voltafaccia ci ha colti di sorpresa”, e che ora si teme l’impatto sulle elezioni di midterm del 2026.
Anche per Elon Musk le conseguenze sono potenzialmente gravi. L’avere contro il Presidente e tutto l’apparato governativo espone le sue imprese a intensificati controlli regolatori e politici. SpaceX potrebbe subire ispezioni e audit sui costi, ritardi nell’approvazione di lanci, o addirittura il mancato rinnovo di contratti per i prossimi progetti (il Pentagono dipende molto da SpaceX per i lanci satellitari: un braccio di ferro qui potrebbe persino “paralizzare i programmi di lancio del DoD”, avverte Breaking Defense). Tesla potrebbe vedere ridotti gli incentivi federali per le auto elettriche (anche se Musk paradossalmente non li ama, restano un fattore di mercato) e affrontare un clima politico più ostile, ad esempio pressioni sindacali incoraggiate dal governo. Le altre aziende di Musk, da Neuralink a Boring Company, potrebbero incontrare più ostacoli normativi. Inoltre, Musk stesso potrebbe essere bersaglio di qualche inchiesta parlamentare (magari sul suo ruolo nella campagna 2024 o sulle sue attività con Twitter/X e la libertà di espressione). Insomma, la rottura con Trump per Musk apre un fronte di vulnerabilità: prima era dentro il cerchio magico, ora rischia di essere visto come un avversario da colpire, col pericolo di “maggiore scrutinio sulle sue pratiche di business, contratti a rischio e indagini in arrivo”.
La vicenda Musk-Trump ha fatto scalpore anche per le sue tinte personali così pubbliche. La stampa ha parlato di una relazione “from bros to foes” (da fratelli ad avversari), sottolineando quanto fosse senza precedenti la vicinanza iniziale di un presidente USA con un magnate tech, e altrettanto senza precedenti la lite così personale e immediata. All’interno dello staff di Trump c’è sorpresa e smarrimento: fino a una settimana prima celebravano Musk nello Studio Ovale definendolo un partner chiave, e ora devono gestire l’“episodio spiacevole” di un Elon Musk “infelice perché il Big Beautiful Bill non include le sue ricette”, come recita un comunicato di circostanza della Casa Bianca che ha liquidato il tutto come un “incidente sfortunato” causato dall’umore di Musk. Molti amici comuni dei due si chiedono se il rapporto sia recuperabile: c’è chi sostiene (vicino a Musk) che la rabbia del miliardario stia già calando e alla fine cercherà di ricucire, magari dopo aver fatto valere i suoi punti sul deficit. Altri però credono che il “divorzio” sia consumato: “Se questo è davvero un divorzio e iniziano a scontrarsi, non ci vorrà molto prima che…” – ha detto un dirigente repubblicano di alto livello, lasciando intendere che volerebbero stracci in maniera ancor più devastante.
È interessante notare alcune cause profonde del conflitto oltre a quelle immediatamente dichiarate. Uno è la questione di potere e influenza: Musk era diventato forse troppo centrale, tanto che già nelle settimane precedenti alcuni consiglieri di Trump avevano iniziato a limitarne l’autorità, restituendo l’ultima parola ai ministri e dicendo a Musk di non esagerare nel suo ruolo. Lo stesso Trump a inizio marzo aveva ricordato al suo Gabinetto che “l’ultima parola spetta ai segretari di dipartimento, non a Musk”. Ciò segnala che probabilmente all’interno dell’amministrazione qualcuno mal sopportava l’influenza extra-istituzionale di Musk e attendeva l’occasione per ridimensionarla. La vicenda Isaacman/NASA è un altro tassello: Musk teneva moltissimo a piazzare un suo uomo alla guida dell’agenzia spaziale (per orientarla verso SpaceX); quando a fine maggio Trump, per ragioni non chiarite (forse pressioni di senatori o di Boeing/Lockheed), ha ritirato la nomina di Isaacman, Musk l’ha vissuto come uno “schiaffo diretto” e una prova che la sua clout politica stava calando. Difatti, dopo quell’episodio Musk ha iniziato a esprimere frustrazione e a segnalare che la sua esperienza di governo poteva concludersi presto. Quindi il disegno di legge sul bilancio è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già incrinato: Musk forse sentiva di non poter incidere abbastanza dall’interno (non riusciva a tagliare come voleva, non riusciva a bloccare l’aumento di deficit) e ha scelto di fare una mossa plateale dall’esterno.
Ripercussioni su politica industriale, aerospazio e tecnologia
Nel merito, la rottura Musk-Trump può avere ricadute significative sulla politica industriale e tecnologica USA. Nel breve termine, rischia di far deragliare alcune iniziative congiunte: la promessa “rivoluzione anti-burocrazia” di Trump perde il suo alfiere più iconoclasta e probabilmente il Dipartimento per l’Efficienza verrà accantonato o ridimensionato. Progetti di collaborazione pubblico-privato in ambito aerospaziale potrebbero subire frenate: l’ambizioso programma lunare Artemis (che prevedeva un lander SpaceX) potrebbe risentire se i rapporti politici peggiorano, così come il progetto di Musk di fornire con Starlink internet ai programmi governativi potrebbe incontrare più diffidenza. La sicurezza nazionale stessa è toccata: SpaceX è appaltatore principale per i lanci militari, e Politico nota che “la cancellazione dei contratti SpaceX come minacciato da Trump sarebbe un’escalation notevole, con potenziali danni al programma spaziale del Pentagono”. Al Pentagono sono certamente preoccupati, perché senza SpaceX le alternative (United Launch Alliance) sono costose e con meno capacità. Va detto che finora è solo una minaccia e probabilmente Trump non si spingerà a compromettere la sicurezza nazionale, ma il solo fatto che l’abbia ventilato è sintomatico di un approccio altamente personalistico alle decisioni.
Nel settore automobilistico ed energetico, Musk che si smarca potrebbe avere due effetti: da un lato, Tesla potrebbe non godere più di trattamenti di favore – anzi, Trump potrebbe cercare di favorire concorrenti di Musk (si pensi alle case tradizionali di Detroit, magari concedendo loro incentivi per veicoli elettrici prodotti da sindacati, e lasciando Tesla esclusa poiché non sindacalizzata). Dall’altro, Musk libero dai vincoli trumpiani potrebbe stringere alleanze con altri attori: ad esempio con i democratici moderati (che potrebbero ora vedere Musk come un prezioso alleato in chiave anti-Trump), o con imprenditori anti-establishment per creare quel third party ipotizzato. Questo fermento potrebbe portare a iniziative politiche nuove, ma anche frammentare il fronte industriale-americano su questioni come cambiamento climatico, regolamentazione di Internet, intelligenza artificiale (Musk potrebbe prendere posizioni differenti da Trump su questi temi, ora che non è più legato).
Infine, a livello di percezione pubblica, questo scontro di titani ha polarizzato ulteriormente opinioni e fanbase. Tra i sostenitori hard-core di Trump, Musk è passato improvvisamente da eroe a traditore: influenti commentatori MAGA sui social hanno iniziato a demonizzare Musk, ricordando che non è un vero conservatore ma un libertario opportunista, e alcuni hanno addirittura lanciato hashtag per boicottare Tesla (anche se è dubbio che attecchiscano in un elettorato che magari non è cliente di auto elettriche comunque). Come segnalato, investitori pro-Trump come James Fishback hanno definito Musk “deludente e inquietante” e lodato “la pazienza e la grazia” di Trump di fronte alle provocazioni di Elon, invitando Musk a chiedere scusa. Tra i fan di Musk, invece, c’è sconcerto e divisione: alcuni, più libertari o centristi, applaudono Musk per aver sfidato Trump su principi fiscali e considerano eccessiva la reazione del presidente; altri, che erano sia trumpiani sia muskiani, vivono un conflitto di lealtà e dovranno scegliere da che parte stare. Di sicuro, la vicenda ha minato l’aura bi-partisan che Musk cercava di mantenere: ora viene visto come figura anche politica e non solo innovatore. E la sua idea di una “terza via” politica per l’80% moderato, sebbene affascinante per qualcuno, appare velleitaria in un sistema bipolare radicato – ma potrebbe comunque drenare voti o influenzare i discorsi in vista delle elezioni.
In conclusione, il rapporto altalenante con Elon Musk evidenzia come sotto Trump prevalgano logiche personalistiche: amicizie e alleanze sono legate alla lealtà personale e alla convergenza momentanea di interessi, e possono spezzarsi di colpo quando emergono contrasti o ferite all’ego presidenziale. Ciò getta un’ombra di imprevedibilità sulla politica industriale americana: settori strategici come l’aerospazio, l’auto elettrica, le infrastrutture tech possono vedere cambiare le priorità a seconda di rapporti di forza volubili fra il Presidente e i grandi imprenditori. Questa incertezza non giova alla stabilità: progetti di lungo termine (dalle missioni spaziali alla transizione energetica) rischiano di diventare ostaggio di dispute personali. Gli osservatori sottolineano che un approccio di questo tipo – pur essendo in linea col carattere “transactional” di Trump – rappresenta un elemento di fragilità sistemica: in passato, le politiche industriali USA erano più istituzionali e meno dipendenti dall’umore di singoli attori. Nel 2025, invece, la rottura tra Trump e Musk – dapprima insospettabile, poi plateale – è diventata simbolo di una governance a tratti impulsiva e volatile, dove la coerenza strategica può venir meno dinanzi a dispute di potere personali.
Strategia coerente o mosse impulsive? – Analisi critica delle scelte di Trump
I tre grandi dossier del 2025 esaminati – la guerra lampo in Medio Oriente, la guerra commerciale globale e il rapporto conflittuale con Elon Musk – dipingono un quadro di politica estera e interna americana dominata da un fattore comune: l’imprevedibilità di Donald Trump. Si tratta ora di chiedersi se in queste mosse si possa intravedere una strategia coerente, una visione di fondo che le collega, oppure se prevalgano decisioni di natura impulsiva, personalistica o opaca. In altri termini, Trump sta seguendo un suo disegno razionale (per quanto non convenzionale) per rafforzare la posizione americana, o si sta muovendo in modo estemporaneo, dettato dall’istinto e dall’interesse personale, generando instabilità come effetto collaterale?
Analizzando i fatti, emergono alcuni elementi di coerenza tematica nelle politiche di Trump: tutte le sue azioni rientrano retoricamente sotto la bandiera dell’“America First”. Nel caso dell’Iran, Trump ha applicato la dottrina della peace through strength: mostrare forza schiacciante per conseguire una pace rapida ai termini americani (e a beneficio dell’alleato Israele). Questo combacia con il suo approccio di massima pressione già visto col regime nordcoreano o iraniano nel primo mandato – solo che allora si era fermato un passo prima della guerra aperta, mentre ora si è spinto oltre. Sul fronte commerciale, la strategia dichiarata è quella della reciprocità forzata: costringere partner e rivali a rimuovere barriere e squilibri commerciali minacciandoli con dazi punitivi. È la stessa logica usata nel 2018-19 (quando strappò concessioni in vari accordi bilaterali) portata però all’estremo nel 2025. Anche la scelta di prendersela con gli alleati per poi dividerli dai cinesi – sospendendo i dazi verso UE/Canada e concentrandoli su Pechino – può essere letta come una strategia divide et impera: isolare la Cina evitando una coalizione anti-USA di Europa e altri, un po’ come fece Nixon al contrario isolando l’URSS con l’apertura a Cina. Infine, nel rapporto con Musk si potrebbe ravvisare la coerenza di Trump nel richiedere assoluta lealtà: lui premia gli alleati finché lo sostengono e li scarica appena lo criticano, inviando un monito ad altri potenziali “traditori”. Anche la minaccia di togliere contratti a SpaceX può essere interpretata come un segnale ad altri capitani d’industria: chi sfida Trump rischia conseguenze. In questo senso, c’è una sorta di “strategia del timore” personalistica ma deliberata.
Tuttavia, al di là della narrazione ufficiale, la sensazione prevalente tra analisti e osservatori è che le mosse di Trump nel 2025 siano state in gran parte impulsive e non pienamente coordinate. Molti indizi lo confermano. Nel caso della guerra Iran-Israele, ad esempio, Trump ha contraddetto in pochi mesi le sue stesse promesse elettorali di non coinvolgere gli USA in nuove guerre mediorientali. A marzo in un viaggio nel Golfo, Trump attaccava i “neocon interventisti” e sembrava disinteressato ad altri conflitti lontani; poi a giugno si è lasciato convincere da Netanyahu a entrare in guerra, smentendo tutta la retorica isolazionista – segno o di una strategia segreta ribaltata (difficile) o più probabilmente di una decisione presa sull’onda degli eventi (forse Netanyahu ha sfruttato l’opportunità, e Trump ha colto la chance di una “vittoria facile”). Pierre Haski su Internazionale nota appunto “la capacità di Netanyahu di convincere Trump a seguirlo” in questa guerra, e sottolinea come due mesi prima Trump desse tutt’altro segnale. Ciò suggerisce che non c’era un piano a lungo termine, ma piuttosto reattività: Netanyahu ha aperto la porta e Trump, fiutando un potenziale successo rapido, l’ha varcata, forse pensando ai benefici politici domestici di essere “il presidente che ha fermato l’Iran”. L’esito fortunatamente è stato positivo nel breve termine, ma come strategia a lungo termine lascia dubbi: la regione resta in bilico, e non c’è stata alcuna visione diplomatica oltre la forza bruta (nessun nuovo accordo, nessuna exit strategy se non “speriamo che basti così”). Difficile definire ciò una strategia coerente.
Sul fronte commerciale, l’impressione di caos prevale su quella di un disegno machiavellico. Trump ha cambiato posizione più volte in pochi giorni, causando shock deliberati e poi retromarce. Se l’obiettivo era costringere partner e Cina al tavolo, forse lo ha anche ottenuto, ma al prezzo di seminare panico nei mercati e alienarsi gratuitamene gli alleati. Fonti internazionali criticano la mancanza di metodo: “La decisione di lanciare una guerra commerciale globale unilateralmente potrebbe essere uno dei peggiori errori di strategia economica di sempre”, scrive ad esempio Ryan Mulholland del CAP. Egli evidenzia come i dazi siano stati imposti “inimmaginabilmente” in modo indiscriminato, colpendo anche Paesi amici e import cruciali per gli USA, “senza preferenze per gli alleati”, e come questo isolerà gli USA e danneggerà l’economia domestica senza riportare i posti di lavoro promessi. Questa valutazione coincide con quella di molti economisti: la politica tariffaria di Trump sembra guidata più dall’impulso di mostrare forza (e di assecondare l’istinto protezionista della sua base) che da una razionale valutazione costi-benefici. La rapidità con cui ha dovuto invertire la marcia ad aprile – spaventato dalla reazione di mercati e grandi finanziatori – mostra che non c’era stato un calcolo attento delle conseguenze. Un indice di questa impulsività è anche il racconto interno: Trump inizialmente “non voleva cedere di un millimetro”, poi ha sentito il parere di Jamie Dimon e nel giro di ore ha ribaltato tutto definendolo un genio. Questo policy whiplash suggerisce che la decisione originaria non era frutto di analisi approfondite (altrimenti non sarebbe bastato un talk show per fargli cambiare idea), ma di istinto e forse di una dose di convinzione esagerata nelle proprie teorie.
Inoltre, c’è un elemento personalistico evidente: l’insistenza sui dazi come “vittoria personale di Trump” (aveva persino dichiarato il 2 aprile una sorta di “giorno della liberazione” dalle imposizioni straniere) indica che il presidente cerca successi tattici e simbolici per il suo ego e per la narrazione politica interna, più che risultati strategici di lungo periodo. Quando però le sue mosse hanno prodotto effetti collaterali negativi (borsa giù, pressioni politiche), non ha esitato a modificarle, pur di poter poi rivendere qualunque esito come un successo (come ha fatto presentando la tregua con la Cina come un suo grande risultato, enfatizzando il taglio “115%” dei dazi). Questa flessibilità opportunistica è efficace per la propaganda, ma di nuovo tradisce assenza di coerenza strategica: l’obiettivo sembra muoversi con il vento delle convenienze immediate più che seguire una rotta fissa.
Il caso Musk è forse il più eclatante per comprendere la prevalenza delle logiche emotive su quelle razionali. Trump aveva investito molto su Musk – e viceversa – e insieme avrebbero potuto realizzare alcune riforme significative. Ma alla prima divergenza seria, tutto è crollato in uno scambio di colpi d’ira. Qui la logica personalistica regna sovrana: entrambi i protagonisti hanno reagito d’istinto e orgoglio, senza (apparentemente) valutare a fondo le implicazioni. Trump poteva cercare una mediazione con Musk sul disegno di legge fiscale, magari concedendogli qualche modifica per salvare il rapporto; invece ha scelto la strada dello scontro frontale, mettendo a rischio persino programmi spaziali vitali per punire un affronto personale. Questo è difficilmente inquadrabile in una “strategia di lungo periodo” per l’America: sembra piuttosto la conferma che nel processo decisionale trumpiano la lealtà personale e la percezione dell’affronto pesano più della sostanza. L’analista Mark Peterson ha commentato che “la vicenda Musk dimostra come Trump veda il governo come un’estensione delle sue relazioni personali di fedeltà, più che un insieme di istituzioni”. Ciò porta a oscillazioni brusche quando qualche alleato non si allinea al 100% ai desideri del capo. Strategicamente, la rottura con Musk indebolisce l’agenda di Trump (perde un prezioso asset) e crea incertezza in settori cruciali – un puro lose-lose in termini di interessi nazionali. L’unica spiegazione del perché l’abbia fatto è l’impulso emotivo di non tollerare critiche e il calcolo politico di breve periodo di mostrarsi “duro” per evitare di apparire succube di un miliardario. Anche la rapidità con cui ha cercato di riscrivere la narrazione (da Musk amico geniale a Musk pazzo ingrato) riflette un adattamento propagandistico personalistico, non una strategia pre-pianificata.
C’è poi la questione delle “logiche opache”. Con questo termine si può alludere ai possibili secondi fini o manovre poco trasparenti dietro le scelte di Trump. Ad esempio, alcuni detrattori insinuano che le oscillazioni tariffarie possano essere legate a interessi speculativi: quando il Parlamento italiano parla di “oscillazioni che hanno consentito operazioni speculative di legalità dubbia”, suggerisce neanche troppo velatamente che forse ambienti vicini all’amministrazione hanno approfittato sapendo in anticipo quando Trump avrebbe twittato un rialzo o una sospensione per guadagnare sui mercati. Se ciò fosse vero (non ci sono prove certe, ma il sospetto aleggia), significherebbe che dietro la facciata delle guerre di principio (dazi per equità commerciale) c’era anche un calcolo opaco di arricchimento per qualcuno. Anche sul fronte bellico e tecnologico alcuni vedono opacità: l’attacco all’Iran giova enormemente all’industria bellica e a certi interessi energetici; il litigio con Musk potrebbe spianare la strada a fornitori rivali di SpaceX (Boeing, Lockheed) che hanno forti lobby a Washington. Trump ha preso queste decisioni per ragioni di Stato o per compiacere determinati gruppi e finanziatori? È difficile dirlo con certezza, ma l’effetto è che spesso il processo non è stato trasparente: decisioni di enorme portata (guerra, dazi) sono arrivate tramite tweet notturni o annunci improvvisati, senza un chiaro coinvolgimento del Congresso o di procedure istituzionali. Questa opacità decisionale (si pensi anche alla mediazione segreta via Qatar per la tregua in Iran, gestita quasi privatisticamente da Trump) fa pendere la bilancia verso l’interpretazione di un governo fortemente personalistico.
Molti esperti, sia negli USA che all’estero, propendono nel giudizio che la politica di Trump nel 2025 sia guidata dall’impulsività e da criteri ego-referenziali più che da un coerente interesse nazionale. Adam Posen, in Foreign Affairs, sostiene che l’idea trumpiana di avere “escalation dominance” in una trade war sia “sbagliata” e che lanciarsi in quel conflitto prima di ridurre la dipendenza dalla Cina è “quasi certamente una sconfitta assicurata a costi enormi”. Questo indica che secondo Posen la scelta di aprire il fronte commerciale in quel modo è stata avventata, non ponderata nei tempi e modi – quindi impulsiva e strategicamente miope. Il Tax Foundation e il Wharton Budget Model hanno stimato che i dazi di Trump del 2025, se attuati in pieno, ridurrebbero il PIL USA a lungo termine di diversi punti percentuali (fino a -6% secondo uno studio) e causerebbero perdita di reddito per le famiglie medie. È difficile immaginare che una strategia consapevole punti a danneggiare la propria economia in tale misura; appare più plausibile che Trump non abbia creduto alle previsioni o le abbia ignorate, agendo d’istinto politico.
Anche la rapida conclusione della guerra in Iran, se da un lato può essere venduta come successo tattico, dall’altro rivela l’assenza di una visione oltre il breve termine: “Sarà un successo duraturo? Questa è la domanda principale” si chiedeva Internazionale, notando che Netanyahu (e Trump) non hanno mostrato finora abilità politiche all’altezza della loro potenza militare. In effetti, il cessate il fuoco con l’Iran è fragile, non accompagnato da accordi diplomatici, e potrebbe essere temporaneo. Se Trump avesse avuto una strategia coerente, avrebbe forse previsto un percorso post-bellico (negoziati, nuove sanzioni mirate, coinvolgimento di altri attori per stabilizzare la regione). Nulla di tutto ciò è emerso finora, lasciando la sensazione di un’azione estemporanea.
In definitiva, esaminando i vari aspetti, la prevalenza di logiche impulsive e personalistiche appare netta. Le azioni di Trump nel 2025 hanno certamente un filo conduttore narrativo – la volontà di mostrare forza, di rompere schemi tradizionali e di ottenere vantaggi immediati per gli USA – ma questo filo si dipana in modo irregolare e spesso contraddittorio. Ogni volta che una mossa ha incontrato ostacoli o generato rischi imprevisti, Trump ha sterzato repentinamente, dimostrando che l’obiettivo principale non era un traguardo strategico fisso, bensì la gestione dell’“immagine di vittoria” personale in ogni momento. Così, ha accettato un cessate il fuoco in fretta per proclamarsi pacificatore vittorioso anziché incaponirsi in una guerra potenzialmente disastrosa; ha sospeso i dazi quando il danno a Wall Street poteva intaccare la sua popolarità, pur di potersi intestare poi la ripresa dei mercati; ha scaricato Musk appena questi è passato da risorsa a minaccia, per affermare che nessuno è intoccabile sopra di lui.
Questa modalità di governo permanentemente in campagna elettorale, dove le decisioni sembrano prese più per il loro effetto mediatico immediato che per calcolo strategico, rende la condotta di Trump un elemento d’incertezza globale. Alleati e avversari faticano a prevedere le mosse degli Stati Uniti, il che può avere effetti destabilizzanti: talora il fattore sorpresa può dare un vantaggio (come contro l’Iran colpito in modo inaspettato), ma sul lungo periodo mina la fiducia nelle alleanze e la credibilità degli impegni americani. Ad esempio, dopo la vicenda dei dazi, l’Europa si chiede se valga la pena firmare accordi con un partner che li straccia via tweet; dopo la guerra lampo, i Paesi del Golfo si chiedono se possono fidarsi che Trump li consulti prima di trascinarli in conflitti; dopo il caso Musk, i business leader riflettono se sia sicuro collaborare con il governo Trump o se si rischia di essere usati come pedine.
Sul fronte interno, questa imprevedibilità comporta una continua polarizzazione dell’opinione pubblica. Gli elettori trumpiani applaudono il suo disruptive leadership style, vedendo un uomo che “mantiene le promesse” (come ha twittato il segretario alla Difesa Pete Hegseth, “il Presidente Trump mantiene le promesse, ancora una volta!” celebrando la pace imposta in Iran). Ma gli oppositori vedono impulsi pericolosi: editoriali parlano di “presidenza casinò” dove si punta tutto su colpi di testa che possono andare bene o malissimo. Sondaggi citati prima mostrano che su questioni chiave (come i dazi) la maggioranza degli americani non approva la linea di Trump, segno che molti percepiscono più rischi che benefici nelle sue mosse.
In conclusione, nel 2025 le azioni di Donald Trump sulla scena politica e internazionale appaiono guidate più dall’istinto personale e dalla ricerca di affermazioni immediate che da una strategia di lungo respiro. Ciò non significa che siano state prive di risultati – anzi, Trump può vantare alcuni “successi lampo” (l’Iran fermato, i cinesi al tavolo, un oligarca tech rimesso al suo posto) – ma questi successi potrebbero rivelarsi effimeri o Pyrrici se non inseriti in una cornice coerente. La “stabilizzazione attraverso la destabilizzazione” di Trump comporta il rischio di futuri contraccolpi: i nemici proveranno a sfruttare la sua imprevedibilità a proprio vantaggio, gli alleati a tutelarsi magari muovendosi in autonomia (si pensi all’Europa che potrebbe stringere accordi propri con la Cina o investire di più nella propria difesa, non fidandosi totalmente di Washington). Gli stessi mercati, pur ripresisi, rimangono in allerta per possibili nuovi tweet incendiari.
L’America di Trump nel 2025 è dunque, per usare le parole di un parlamentare europeo, “un fattore di disturbo nell’ordine mondiale”. Resta la domanda aperta se dietro questo disturbo ci sia un “metodo nella follia” o solo la follia del metodo. Finora, la bilancia pende verso la seconda ipotesi. Trump governa come un giocatore d’azzardo – come lo ha definito icasticamente il portavoce dell’esercito iraniano – rilanciando la posta in modo imprevedibile. Se nel breve termine questo stile può mettere in difficoltà gli avversari, nel medio-lungo termine rischia di erodere il capitale politico ed economico degli Stati Uniti. Una diplomazia e una strategia economica basate sul “colpo di scena” continuo non forniscono basi solide su cui costruire la pace o la prosperità duratura. In definitiva, nel 2025 la leadership di Trump appare come un fattore intrinsecamente instabile: un elemento che aggiunge volatilità agli equilibri globali, lasciando il mondo – alleati compresi – in uno stato di incertezza su quali saranno le prossime mosse della superpotenza americana e se queste risponderanno a una logica comprensibile o all’improvviso tweet di una mattina.