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E se l’AI avesse meno probabilità di sbagliare di un esperto?

In un tempo in cui la conoscenza è diventata accessibile quanto l’aria che respiriamo, consultare un’intelligenza artificiale per farsi una prima idea su questioni anche delicate è ormai una prassi sempre più comune. La rapidità con cui è possibile ottenere una risposta, spesso articolata e corredata da riferimenti aggiornati, ha reso questi strumenti parte integrante del quotidiano, anche nei momenti in cui in passato ci si sarebbe rivolti subito a un professionista in carne e ossa. Tuttavia, questa abitudine è ancora accompagnata da un retaggio culturale di sospetto, alimentato da un dibattito spesso di parte che sottolinea con insistenza i rischi potenziali di simili scelte. Meno spesso, però, ci si sofferma a riflettere con la stessa lucidità sulla fallibilità della consulenza umana. In ambito sanitario, ad esempio, le statistiche parlano chiaro: ogni anno in Italia si registrano migliaia di errori medici, molti dei quali con conseguenze gravi o irreparabili. E la medicina, con tutto il suo rigore scientifico, non è certo l’unico settore in cui possono verificarsi distrazioni, valutazioni errate, superficialità. L’errore, a ben vedere, non è una prerogativa delle macchine, ma un elemento strutturale di qualunque processo cognitivo, umano o automatizzato che sia.

Mentre le professioni continuano a evolversi, l’intelligenza artificiale sta affinando la sua capacità di fornire risposte utili e sempre più pertinenti, anche nei campi più specialistici. I modelli di ultima generazione, inoltre, integrano sistemi di verifica incrociata, filtri di sicurezza e, in alcuni casi, perfino strumenti di valutazione della probabilità di errore. Alcuni meccanismi, come il cosiddetto retrieval augmented generation, permettono di integrare la produzione linguistica dell’AI con documenti reali e fonti certificate, creando una risposta che risulta formalmente coerente e ancorata a contenuti validati. L’effetto, per l’utente, è quello di disporre non di una semplice opinione, ma di un resoconto che evidenzia sfumature, ambiguità, posizioni differenti: un compendio informativo che, se interpretato correttamente, può orientare la ricerca e guidare verso scelte più consapevoli.

Chi teme che l’uso dell’AI possa sostituire il valore di un confronto umano ignora spesso la natura dialogica di questi strumenti. L’AI non è un oracolo, né pretende di esserlo. È, piuttosto, un alleato nella fase esplorativa del pensiero, un supporto che permette di chiarire i propri dubbi, affinare le domande, ampliare la prospettiva. È proprio questo utilizzo preliminare a rivelarsi il più proficuo: non un rimpiazzo, ma un preludio. Consultare un’AI prima di rivolgersi a un medico, a un avvocato o a uno specialista in qualsiasi campo, può significare arrivare all’incontro con maggiore consapevolezza, avendo già chiarito i punti essenziali e identificato le aree più controverse. Questo consente di sfruttare meglio il tempo del professionista e, in molti casi, ottenere risposte più precise e mirate.

Naturalmente, nessuna fonte, né digitale né umana, può essere considerata infallibile. La fiducia cieca è un errore in ogni direzione. Ma in un mondo dove le informazioni si moltiplicano e si frammentano, l’accesso guidato e intelligente alla conoscenza può diventare un vantaggio competitivo fondamentale. L’intelligenza artificiale, grazie ai suoi protocolli di aggiornamento continuo e ai meccanismi di auto-correzione, è oggi in grado di offrire punti di partenza affidabili in moltissimi contesti. Ignorarla per principio, o per paura di sostituire l’uomo, equivale a rinunciare a una risorsa preziosa. Più utile sarebbe, invece, imparare a integrarla, a dialogare con essa, a comprenderne limiti e potenzialità. L’intelligenza non è mai del tutto artificiale o del tutto umana: nasce sempre dall’incontro tra domande ben poste e risposte ben formulate. In questo spazio intermedio, l’AI ha già molto da dire.