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La stampa italiana contemporanea tra faziosità e interessi degli editori

La stampa italiana viene spesso accusata di essere fortemente faziosa e piegata agli interessi degli editori. Questa percezione negativa ha radici profonde nella storia del giornalismo nazionale e si è accentuata negli ultimi decenni a causa delle concentrazioni editoriali e degli intrecci con il potere economico-politico. Per comprendere le origini di tale faziosità, occorre ripercorrere l’evoluzione storica dell’informazione in Italia, analizzando i momenti chiave in cui l’autonomia dei media si è indebolita. Allo stesso tempo, è fondamentale esaminare il ruolo giocato dagli editori – spesso grandi gruppi industriali o figure politiche – nella gestione delle principali testate giornalistiche, sia cartacee sia online. Infine, il quadro non sarebbe completo senza inquadrare il problema nel contesto della crisi economica dell’editoria, segnata dal crollo della pubblicità tradizionale, dalla competizione digitale e dalla precarizzazione del lavoro giornalistico. Questi fattori hanno contribuito all’emergere di contenuti di bassa qualità, al dilagare di pratiche come il clickbait, alla dipendenza dagli algoritmi e al drammatico ridimensionamento del giornalismo d’inchiesta. Nei paragrafi seguenti, attraverso esempi concreti delle principali testate italiane (dai grandi quotidiani storici alle nuove testate online), si offrirà un’analisi critica e strutturata delle dinamiche di potere che influenzano l’informazione e delle conseguenze sulla qualità del dibattito pubblico.

Dall’indipendenza post-bellica al declino: evoluzione storica e indebolimento dell’autonomia

Nel secondo dopoguerra, l’Italia rinasce come democrazia con una Costituzione che garantisce la libertà di stampa. Dopo gli anni bui del regime fascista – durante i quali la stampa era asservita alla propaganda del regime – esplode una vivace scena mediatica. Molte testate vengono fondate o rifondate: accanto ai quotidiani indipendenti nati da iniziative imprenditoriali autonome, proliferano giornali espressione di partiti politici o gruppi ideologici. Ad esempio, l’Unità fu l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, Il Popolo quello della Democrazia Cristiana, mentre altri quotidiani come Il Giorno nacquero su impulso di imprenditori pubblici (ENI, nel caso de Il Giorno). Nei primi decenni repubblicani, dunque, l’informazione oscillava tra testate di partito, fortemente schierate, e testate che ambivano a un giornalismo più laico e indipendente, pur dovendo spesso fare i conti con i finanziamenti e le pressioni provenienti dall’ambiente politico ed economico.

Un momento chiave di svolta nel rapporto tra stampa e potere si verifica tra gli anni Settanta e Ottanta. Fino ai primi anni ’70, quotidiani come Il Corriere della Sera (lo storico giornale di via Solferino) godevano di una relativa indipendenza: sotto la proprietà della famiglia Crespi, il Corriere si manteneva autonomo dai “poteri forti” economici e politici. Tuttavia, la crisi finanziaria di alcune testate e l’avvento di trame occulte segnarono profondamente l’autonomia editoriale. Emblematico è il caso P2: la loggia massonica segreta Propaganda Due, negli anni 1970-1980, infiltrò pesantemente il mondo dell’informazione. Proprio Il Corriere della Sera finì sotto l’influenza della P2, perdendo la tradizionale indipendenza e scivolando in uno dei periodi più bui della sua storia. Nel 1981 lo scandalo P2 venne alla luce, portando alla luce un piano di controllo sulla stampa e costringendo la proprietà Rizzoli (allora editrice del Corriere) a un’amministrazione controllata. Fu in questo contesto che si consumò uno dei momenti di massimo indebolimento dell’autonomia giornalistica: Il Corriere, uscito dalla bufera P2 in ginocchio finanziariamente, divenne preda dei grandi poteri economici. A metà degli anni Ottanta, il banchiere Enrico Cuccia orchestrò infatti il passaggio del quotidiano sotto il controllo diretto di un consorzio di grandi gruppi industrial-finanziari (FIAT della famiglia Agnelli, Mediobanca e Banca Intesa). Via Solferino – la sede del Corriere – entrò così nei “salotti buoni” della finanza italiana, sancendo la fine dell’epoca del grande quotidiano indipendente e l’inizio di una convivenza stretta con gli interessi di potenti azionisti.

Parallelamente, altri quotidiani subirono svolte simili. La Repubblica, fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari e diretta inizialmente con un’impronta indipendente e progressista, rappresentò un raro esempio di testata creata da giornalisti senza il patrocinio diretto di grandi gruppi economici. Tuttavia, anche in questo caso, il sogno dell’“editore puro” (cioè privo di altri interessi industriali) durò poco: a fine anni Ottanta Scalfari e soci, non riuscendo a sostenere autonomamente i costi nonostante il successo editoriale, cedettero la Repubblica all’ingegnere Carlo De Benedetti. Fu uno dei primi casi di perdita dell’indipendenza finanziaria di una testata di successo, preludio a un trend di concentrazione proprietaria che avrebbe coinvolto gran parte della stampa italiana nei decenni successivi.

Gli anni Novanta segnano un’ulteriore fase cruciale. L’ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994 portò all’apice il tema del conflitto di interessi tra media e potere politico. Berlusconi non era un attore nuovo nel panorama mediatico: già dagli anni ’80, come imprenditore televisivo, aveva costruito un impero mediatico (Mediaset) e acquisito nel 1977 il quotidiano Il Giornale (fondato da Indro Montanelli). Ma con la sua discesa in campo politico, i suoi media divennero strumenti diretti di consenso. La situazione era (ed è tuttora) unica in Europa: un leader politico proprietario di reti televisive nazionali, case editrici e quotidiani. Questo concentramento di potere mediatico nelle mani di un leader di partito sollevò dure critiche in tema di pluralismo e indipendenza. Emblematiche furono le dimissioni di Indro Montanelli da Il Giornale: lo storico direttore lasciò la testata da lui fondata quando divenne chiaro che l’editore Berlusconi intendeva usarla come voce di partito. Montanelli, liberal-conservatore ma fermamente autonomo, preferì farsi da parte e denunciare pubblicamente la trasformazione dei giornali in “bollettini di partito”.

Nel frattempo, altri grandi quotidiani entrarono nell’orbita di imprenditori e banche: La Stampa di Torino era da sempre legata alla famiglia Agnelli (proprietaria della FIAT), Il Messaggero di Roma passò sotto il controllo del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, Il Sole 24 Ore restò proprietà di Confindustria (l’associazione degli industriali) consolidando la sua natura di megafono degli interessi imprenditoriali. In questi e molti altri casi, l’autonomia editoriale si intrecciava inevitabilmente con la volontà degli azionisti di maggioranza, spesso protagonisti di primo piano dell’establishment economico e politico italiano.

Alla fine del XX secolo, dunque, lo scenario della stampa italiana vedeva poche isole indipendenti in un mare di testate controllate da grandi gruppi. Se gli anni ‘90 avevano già mostrato i rischi di una stampa piegata al potere (si pensi anche alla pratica della lottizzazione delle reti RAI tra i partiti, parallela al controllo privato dei giornali), gli anni Duemila e Duemiladieci accentuano ulteriormente queste tendenze, come vedremo, anche a causa delle crescenti difficoltà economiche del settore.

Editori “impuri”: intrecci tra stampa, industria e politica

Un fattore centrale della faziosità percepita della stampa italiana risiede nella figura dell’editore impuro, ovvero l’editore che non fa solo l’editore. In Italia la maggior parte dei proprietari di giornali ha (o ha avuto) interessi primari in altri settori – dall’auto al credito, dalle costruzioni alle telecomunicazioni – e considera il giornale uno strumento strategico per tutela e promozione di tali interessi. Questo modello differisce da quello auspicato dell’“editore puro”, focalizzato unicamente sull’attività editoriale. La realtà italiana, come osservano gli analisti dei media, è che le proprietà dedite solo all’editoria sono rarissime: “gli unici due quotidiani senza padroni sono Il Fatto Quotidiano e il manifesto … Per il resto le casematte del capitalismo italiano e straniero controllano ogni centimetro dei quotidiani italiani”. In altre parole, quasi tutti i grandi giornali risultano incorporati in conglomerati le cui principali fonti di profitto risiedono altrove, e ciò genera inevitabilmente condizionamenti sull’indirizzo editoriale.

La geografia dei gruppi editoriali italiani offre esempi lampanti di questi intrecci. Il Gruppo GEDI, oggi uno dei maggiori poli editoriali (pubblica la Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX e varie testate locali, oltre a settimanali come L’Espresso), è controllato dalla holding Exor della famiglia Agnelli-Elkann. Exor è la stessa finanziaria che controlla multinazionali come Ferrari e Stellantis (automobili), CNH Industrial (macchine industriali), nonché partecipazioni ne The Economist e altre aziende globali. La famiglia Agnelli, dunque, dopo aver dominato l’industria automobilistica italiana, negli ultimi anni è diventata protagonista anche nell’editoria: dal 2019-2020 John Elkann (erede Agnelli) ha acquisito la maggioranza di GEDI, estendendo il proprio impero al cuore della stampa nazionale. Un altro grande gruppo, RCS MediaGroup, editore fra l’altro del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, è oggi controllato dall’imprenditore Urbano Cairo (patron anche dell’emittente La7) e partecipato da Mediobanca, dal gruppo Caltagirone, da investitori come Diego Della Valle (moda) e perfino da un gigante pubblico cinese (ChemChina). Questo azionariato composito significa che nel Corriere coesistono influenze di banche, costruttori ed interessi internazionali.

Casi analoghi abbondano: la famiglia Caltagirone, oltre a essere azionista RCS, controlla direttamente Il Messaggero di Roma, Il Gazzettino di Venezia e altri quotidiani locali, avendo costruito un proprio polo editoriale accanto al core business nel settore immobiliare e dei lavori pubblici. Il Gruppo Monrif (della famiglia Riffeser) possiede testate regionali storiche come Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, ma al tempo stesso gestisce alberghi di lusso e attività immobiliari. Persino Il Sole 24 Ore, pur dedicato all’economia, rientra nel quadro degli editori impuri: è emanazione di Confindustria, la confederazione industriale, e in quanto tale riflette la linea dell’establishment imprenditoriale (tanto che la direzione del quotidiano spesso si allinea con le posizioni ufficiali dell’associazione, soprattutto su temi di politica economica e lavoro).

Forse il caso più eclatante di intreccio stampa-potere in chiave politica resta quello già citato di Silvio Berlusconi, che incarna il paradigma dell’imprenditore impuro applicato ai media. La sua vicenda dimostra plasticamente quanto possedere testate giornalistiche possa servire come amplificatore di consenso politico: “Da un po’ di anni la destra politica ha capito che mettere le mani sui giornali… è fondamentale per garantirsi il consenso. Silvio Berlusconi docet”. Berlusconi inaugurò negli anni ’90 una stagione in cui la confusione tra ruolo di editore e ruolo di leader politico divenne palese. Negli anni 2000, vari altri attori politici o economici hanno seguito – in forme più discrete – questo esempio, acquisendo giornali per consolidare il proprio peso mediatico.

Un recente sviluppo, significativo soprattutto nell’ultimo decennio, è l’emergere di poli editoriali di destra riuniti sotto singole famiglie imprenditoriali. La famiglia Angelucci, ad esempio, è diventata un attore di primo piano: attraverso la finanziaria Tosinvest, gli Angelucci controllano oggi quotidiani popolari come Libero, Il Tempo e – con quote rilevanti o influenza indiretta – anche Il Giornale e La Verità. Si tratta per lo più di testate schierate su posizioni conservatrici o sovraniste, spesso in prima linea nel sostenere determinate forze politiche di destra. È indicativo notare che alcuni di questi giornali beneficiano anche di generosi contributi pubblici all’editoria (Libero ad esempio, percepisce finanziamenti statali indiretti grazie a stratagemmi societari, fattore definito “sovvenzionato dallo Stato in modo generoso e indebito” in toni polemici). La concentrazione proprietaria in quest’area riflette una strategia precisa: controllare l’informazione, soprattutto locale, per orientare l’opinione pubblica di determinati bacini elettorali.

Questi intrecci proprietari hanno conseguenze tangibili sulla linea editoriale e sulla qualità dell’informazione. Quando un giornale fa parte del portafoglio di un grande gruppo industriale, tenderà difficilmente a pubblicare notizie che possano danneggiare gli interessi del gruppo stesso o dei suoi alleati. Un veterano del giornalismo italiano, Bruno Perini, ha raccontato un episodio illuminante: lavorando in passato per RCS (editrice del Corriere), tentò di scrivere un articolo critico sull’ENI (colosso energetico italiano), ma il direttore glielo impedì spiegando che “non era possibile, essendo l’ENI uno dei principali inserzionisti pubblicitari”. In sostanza, alcuni poteri economici erano (e sono) “intoccabili” sulle pagine dei quotidiani perché direttamente legati agli editori o fondamentali per le entrate pubblicitarie. La commistione tra pubblicità e informazione qui è palese: quando un’azienda è sia grande inserzionista sia eventualmente vicina agli azionisti, il confine tra notizia e promozione si assottiglia pericolosamente. Lo stesso Perini aggiunge che il peso dei padroni sui contenuti dei loro giornali è “molto forte” e cita come esempio il Corriere della Sera di oggi, dove a suo dire “gli amici di Urbano Cairo non si toccano”. Questo significa che personaggi o imprese legati all’editore Urbano Cairo (proprietario di RCS) godrebbero di un trattamento di favore o di un’esenzione dalle critiche più dure. Si delinea così uno scenario in cui i giornalisti sanno di avere linee rosse da non superare, che corrispondono alle aree di interesse dei proprietari. Ciò inevitabilmente alimenta faziosità: invece di svolgere un ruolo di cani da guardia imparziali del potere, molte testate finiscono per fare da scudo ai poteri di riferimento, o per attaccare selettivamente quelli avversi agli interessi della proprietà.

In sintesi, l’assetto proprietario “impuro” della maggior parte dei media italiani è un fattore determinante della loro scarsa autonomia e dell’orientamento spesso partigiano delle notizie. Quando capitalisti, banchieri o politici siedono nei consigli di amministrazione dei giornali, la distanza tra fatti e opinioni di parte si riduce. Le vicende storiche – dal salvataggio del Corriere orchestrato da Mediobanca e FIAT negli anni ’80, alla scalata di Repubblica da parte della FIAT/Exor negli ultimi anni, fino alla galassia berlusconiana – mostrano una stampa che progressivamente ha dovuto “cedere” la propria indipendenza in nome della sopravvivenza economica o della convenienza politica. Molti osservano che questo rappresenta il fallimento dell’editoria indipendente come progetto imprenditoriale in Italia: senza mecenati o grandi gruppi alle spalle, è quasi impossibile sostenere i costi di un grande quotidiano nazionale. Così, l’autonomia ideale cede il passo al compromesso quotidiano con gli interessi degli editori, e la faziosità – intesa come allineamento a quelle specifiche linee di interesse – diventa sistemica.

Crisi economica dell’editoria: pubblicità in calo, digitale e precarietà favoriscono il sensazionalismo

Se la struttura proprietaria spiega una buona parte delle distorsioni dell’informazione italiana, un altro elemento cruciale è la profonda crisi economica che ha investito l’editoria negli ultimi 15-20 anni. Questa crisi, in gran parte dovuta a fattori globali (innovazione tecnologica, cambiamenti nelle abitudini del pubblico, recessioni economiche), ha avuto in Italia effetti particolarmente acuti, contribuendo ad abbassare la qualità media dei contenuti e a esasperare pratiche faziose o poco etiche nella lotta per la sopravvivenza.

Uno dei fattori più evidenti è il crollo della pubblicità tradizionale sulla carta stampata. Storicamente, i giornali italiani (come quelli di tutto il mondo) si finanziavano in buona parte grazie agli introiti pubblicitari, oltre che alle vendite in edicola. Con l’avvento di Internet e dei colossi del web (Google, Facebook in primis), la fetta maggiore degli investimenti pubblicitari si è spostata sulle piattaforme digitali, riducendo drasticamente le entrate per i media tradizionali. I dati testimoniano un autentico tracollo: tra il 2014 e il 2021, ad esempio, i lettori dei quotidiani cartacei in Italia sono diminuiti di oltre il 40%, passando da circa 19,3 milioni a 11,4 milioni di lettori nel giorno medio, con un crollo particolarmente marcato tra i giovani sotto i 34 anni (più che dimezzati nello stesso periodo). Il pubblico migrato online, sebbene in crescita, non compensa le perdite: aumentano i lettori digitali, ma i ricavi restano insufficienti, dato che un abbonamento digitale rende molto meno di una copia cartacea venduta. Di conseguenza, le aziende editoriali hanno visto erodersi i bilanci, reagendo spesso con tagli ai costi: prepensionamenti, chiusura di redazioni locali, licenziamenti e drastica riduzione degli investimenti in prodotti giornalistici di qualità.

In questo contesto di vacche magre, è dilagata la tentazione di rincorrere i click facili per racimolare visualizzazioni online e relativi spiccioli pubblicitari. La monetizzazione web basata su modelli come il pay-per-click o per impressione ha finito per incentivare l’uso di titoli sensazionalistici e contenuti acchiappa-click, a scapito dell’accuratezza e della profondità. Non a caso, si parla di una vera e propria deriva clickbait: i giornali, pressati dalla necessità di traffico, hanno creato “quel mostro chiamato clickbait: titoli fuorvianti, sensazionalistici, che puntano sulla massiccia condivisione social facendo leva sui sentimenti. Questo comportamento ha soltanto abbassato la qualità generale dell’informazione”. In altre parole, nella caccia disperata a ricavi pubblicitari, molti siti di news italiani hanno sacrificato la serietà giornalistica per contenuti viralizzabili sui social network, spesso indulgendo al populismo giornalistico e alla superficialità. Un esempio tipico sono i titoli gridati o allarmistici su temi di cronaca nera o costume, privi di reale sostanza informativa ma confezionati per suscitare clic impulsivi. Tali pratiche, oltre a confondere i lettori, aggravano la percezione di una stampa poco affidabile e urlata, amplificando la sensazione di faziosità (poiché spesso questi contenuti puntano a confermare pregiudizi di una certa audience, più che a informare in modo equilibrato).

Un altro effetto collaterale dell’ecosistema digitale in cui i giornali operano è la dipendenza dagli algoritmi e dai trend del momento. Con una fetta ampia di lettori che arriva alle notizie attraverso i social network o i motori di ricerca, le testate sono indotte a produrre contenuti ottimizzati per queste piattaforme. Ciò significa enfatizzare temi che “tirano” online, spesso in tempo reale, seguendo le mode o le parole chiave più cercate (basti pensare al fiorire di articoli su gossip o su paure del momento, dalla salute alle migrazioni, calibrati su ciò che l’algoritmo di Facebook o Google News privilegia). Questa sudditanza verso algoritmi estranei alla logica giornalistica ha portato a un’omologazione dei contenuti e a un ulteriore impoverimento qualitativo: meno approfondimento, più reattività emotiva. In parte, i giornali sono diventati inseguitori delle tendenze anziché guide dell’opinione pubblica informata.

Forse l’indicatore più drammatico della crisi qualitativa che attanaglia la stampa italiana contemporanea è il depauperamento del giornalismo d’inchiesta. Tradizionalmente, l’inchiesta giornalistica (indagini prolungate su fenomeni complessi, scandali, corruzione, criminalità organizzata) è la massima espressione del ruolo civico della stampa. Eppure, oggi essa rischia di sparire dalle pagine dei quotidiani mainstream. Le ragioni, ancora una volta, sono sia economiche sia strutturali: “Il giornalismo d’inchiesta è ormai quasi in via d’estinzione nei giornali tradizionali, piegati dalla crisi strutturale dell’editoria. Le inchieste costano, richiedono un impegno di lavoro di giorni, settimane e a volte mesi. Sono un grattacapo per molti direttori… perché spesso scomode, rivelano interessi nascosti, pestano i piedi a potenti in grado di influire sulle carriere … e comportano rischi legali (querele) che non tutti i giornali possono permettersi”. In poche righe, questa analisi (svolta da Angelo Mincuzzi, giornalista de Il Sole 24 Ore) riassume bene perché l’inchiesta stia sparendo: è costosa, lenta, pericolosa e mal si concilia con bilanci in rosso e proprietà impazienti. Meglio dedicarsi – dal punto di vista del management di una testata – a contenuti più redditizi nel breve termine o meno rischiosi. Così, molte testate italiane hanno smantellato o ridotto al lumicino le squadre investigative interne; gli “inviati speciali” di un tempo, capaci di stare mesi su un caso, sono in via d’estinzione. E questo comporta un grave impoverimento nella capacità dei media di scoprire verità scomode e fare da contro-potere. Non sorprende che in questo vuoto si inseriscano talvolta attori esterni: consorzi di giornalisti indipendenti o testate nate sul web che si sono distinte in inchieste under-cover) cercano di sopperire alle mancanze dei grandi giornali. Tuttavia, restano iniziative di nicchia, con risorse limitate rispetto ai media mainstream.

Conseguenze sulla qualità dell’informazione pubblica e considerazioni finali

Il quadro delineato – tra condizionamento degli editori, crisi economica e deriva sensazionalistica – spiega perché la stampa italiana venga percepita come faziosa e poco autonoma. Le dinamiche di potere approfondite nei paragrafi precedenti hanno conseguenze dirette sulla qualità del dibattito pubblico e sulla fiducia dei cittadini nei media. In una democrazia sana, la stampa dovrebbe fungere da specchio fedele della realtà, mettendo in luce sia le virtù sia le magagne del Paese, senza riguardo per quali interessi possano venir toccati. In Italia, al contrario, troppo spesso l’informazione appare frammentata in feudi, ciascuno rispondente a un patron o a una linea politico-editoriale predefinita. Ne risulta una polarizzazione per cui i giornali sembrano più impegnati a sostenere una parte (o un gruppo di interesse) e attaccare l’altra, che non a informare obiettivamente il lettore.

Gli esempi concreti abbondano e aiutano a capire queste dinamiche. Quando un grande scandalo coinvolge, poniamo, un importante inserzionista pubblicitario o una banca azionista, alcune testate tendono a minimizzare la notizia o a riportarla con toni anodini; viceversa, altri giornali, magari vicini a interessi opposti, enfatizzeranno lo scandalo a fini polemici. Il lettore medio, di fronte a versioni così divergenti, fatica a farsi un’idea equilibrata. Un caso esemplare fu quello del cosiddetto “caso Banca Etruria” a metà degli anni 2010, legato a presunti favoritismi politici nel salvataggio di banche locali: i quotidiani più vicini all’allora governo di centro-sinistra ne parlarono con cautela, mentre quelli d’area opposta montarono il caso in prima pagina per settimane. Situazioni analoghe si sono viste con i guai giudiziari di Silvio Berlusconi o, più di recente, con le inchieste su esponenti del governo: la copertura mediatica varia dal silenzio alla grancassa a seconda della linea editoriale di ciascuno. Questo alimenta la sensazione che ogni testata “tiri acqua al proprio mulino”, disorientando il pubblico.

La perdita di credibilità della stampa tradizionale è un ulteriore effetto collaterale. Sondaggi ed evidenze empiriche indicano che molti italiani si fidano sempre meno dei giornali, percepiti come parte di un “sistema” connivente con il potere. L’Italia occupa da anni posizioni poco invidiabili nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa: Reporter Senza Frontiere colloca regolarmente il nostro Paese attorno al 40º posto al mondo, citando proprio l’eccessiva concentrazione mediatica, i conflitti di interesse e le pressioni (politiche, economiche e anche mafiose) sui giornalisti come motivi di vulnerabilità dell’informazione. Una stampa faziosa e dipendente comporta che notizie cruciali (per esempio su corruzione o malaffare) possano venire insabbiate o sminuite, mentre notizie futili vengono gonfiate per distrarre o per fare audience. Il risultato è un’opinione pubblica meno informata o informata in modo distorto, facilmente manipolabile dalle narrazioni di parte. In ultima analisi, ne risente la qualità della democrazia: quando i cittadini non dispongono di un’informazione affidabile e pluralista, risulta più difficile maturare opinioni consapevoli e partecipare al dibattito pubblico con cognizione di causa.

Allo stato attuale (prima metà degli anni 2020), la stampa italiana vive una contraddizione irrisolta: da un lato il richiamo ai valori del giornalismo libero e del servizio al pubblico, dall’altro le esigenze imposte dagli interessi proprietari e dalla sostenibilità economica. Questa tensione, se non verrà sciolta, continuerà a produrre un’informazione percepita come parziale e inaffidabile. Ricostruire una stampa realmente autonoma e credibile in Italia appare un compito arduo, che richiede cambiamenti strutturali: legislazioni antitrust più efficaci nel settore dei media (per evitare eccessive concentrazioni), incentivi a modelli di editoria indipendente, tutela del lavoro giornalistico e lotta alle cause bavaglio e alle intimidazioni che zittiscono i cronisti coraggiosi. Senza queste misure, il rischio è di assistere a un ulteriore degrado: una stampa ridotta a megafono di pochi potenti, con giornalisti precari costretti a piegarsi alle convenienze del momento, e un pubblico cinico che cerca rifugio nell’informazione fai-da-te dei social media, ancor più esposta a fake news e manipolazioni.

L’odierna faziosità della stampa italiana e la sua subalternità agli interessi degli editori non sono fenomeni nati dal nulla, ma il prodotto di decenni di evoluzione storica, di scelte imprenditoriali e di trasformazioni tecnologico-economiche. Conoscerne le cause – dall’indebolimento progressivo dell’autonomia a partire dagli anni Ottanta, al ruolo pervasivo degli editori impuri, fino alla crisi dell’editoria tradizionale nell’era digitale – è il primo passo per affrontare il problema. Solo una consapevolezza diffusa di queste dinamiche potrà infatti stimolare una domanda di informazione migliore e più libera. La posta in gioco è alta: la qualità dell’informazione incide direttamente sulla qualità della democrazia. Una stampa meno faziosa, più coraggiosa e realmente indipendente sarebbe non solo un bene per i giornalisti, ma un patrimonio per tutti i cittadini. Come recita un vecchio adagio, “libera stampa, libero Stato”: rigenerare la stampa italiana in questo senso è una sfida non più rimandabile.